"Sul dialogo": il fondamento di ogni intendersi
7. Ricorda che Prometeo non fu gradito agli dei, o perchè costui, spargendo i tesori degli dei, sembrava incitare al torpore il genere umano, ovvero perchè costui faceva comune promiscuamente a degni e indegni una cosa eccellentissima.
Giordano Bruno, Il sigillo dei sigilli, tr. it. a cura di N. Tirinnanzi, BUR 2006
Introducevo così l’intervento O tutti o nessuno! Ma perché? , provando ad evidenziare come la consapevolezza della “differenza” tra gli uomini non possa non costituire una colonna portante in ogni progetto di costruzione di un’etica o in generale per ogni discorso che riguardi la convivenza civile. Nella storia del pensiero l’argomento della differenza è stato variamente declinato, assumendo talvolta posizioni estreme, compresa la sua incondizionata affermazione al di sopra di qualsiasi altra analisi o persino negazione, sostenendo una cieca quanto improbabile assoluta uguaglianza. Questi rapidi cenni ci aprono le porte alla lettura di una provocazione ricorrente sulla validità del tramite per eccellenza tra gli uomini, ovvero il dialogo: com’è possibile dialogare, ovvero inter-agire, comunicare, tra due soggetti differenti, con un diverso passato, un diverso modo di vedere le cose o addirittura diverso registro linguistico? Quanto vale questa “differenza” e in quale misura siamo “diversi” o “uguali”? Appare evidente come il dialogo richieda un vero e proprio fondamento, ovvero un punto di appoggio che ne assicuri sempre e in ogni situazione la possibilità di prender vita, ma anche la sua efficacia e produttività; un fondamento che sia, in estrema sintesi, proprio quell’uguaglianza tra gli uomini, quello spazio o limite di possibilità e inizio, a partire dal quale costruire una relazione. Le domande impongono una riflessione complessa, piena di sfaccettature e rimandi, davvero difficili da affrontare; mi limito a mettere in evidenza come questo spazio di uguaglianza non possa solo esser condiviso, come alcune pratiche o consuetudini, per loro natura mutevoli, ma debba poter essere universale e necessario, in quanto deve poter soddisfare la "provocazione" in qualsiasi epoca o tradizione, deve poter essere il fondo, il sostrato, che unifica e sostiene ogni differenza e particolarità di usi, etiche, politiche e pensieri, senza risolverli o appiattirli. D'altronde proprio il dialogo tra tradizioni lontane e apparentemente irriducibili sembra essere la sfida della filosofia del XXI secolo e, di rimando, sembra essere decisivo, ora come nel passato, per gli eventi storici, politici o semplicemente per la quotidianità di ognuno. Pertanto la fiducia nella Ragione, la sola facoltà umana che può dirsi universale e necessaria, non può che essere la base e il presupposto: la pura Ragione è il fondamento di un qualsiasi intendersi in quanto si impone come universale, in-determinata e assoluta, obiettiva e “distaccata”, mai chiusa nelle particolarità delle tradizioni o nella frammentazione dei “secondo me” e degli “ipse dixit”, tipici di una contemporaneità troppo attenta a non ferire l' “individuo” e mal disposta verso tutto ciò che è universale.
Commenti
Un intesa richiederebbe che ci fosse una predisposizione (condizione di possibilità) del dialogo fra pensanti e quindi che le categorie non differissero fra individui. L'evidenza insegna il contrario, ed è in fondo la grande inconoscibilità che sospende ogni oggettività e ogni scienza. Una ragione pura e universale non a caso è un idea abbandonata da oltre 150 anni in filosofia.
Analogamente si può affrontare la questione del linguaggio, che è probabilmente la rappresentazione di quel gioco di categorie di cui parlavo. Wittgenstein perse metà della sua vita e della sua speculazione intorno all'idea di un metalinguaggio unico che potesse fondare un universalismo prima di approdare ai lidi dei giochi linguistici.
Concluderei quindi che il dialogo è sostanzialmente fra l'io pensante e il mondo nel suo complesso, senza distinzione se l'interlocutore è un sasso o un uomo. Certo una tale interazione non fonda alcuna intersogettività e oggettività, ma è la base dialettica per la weltanschauung di ciascuno ed è l'attività fondamentale della vita e dell'esistenza.
grazie
;)
Purtroppo sulla presenza o assenza di una ragione universale e di una identità delle categorie tale da permettere un vero intendimento e una totale com-prensione non possiamo essere mai certi, ma mi pare che il prospettivismo sia un problema col quale fare i conti.
Senza un ultima parola sull'esistenza dell'iperuranio non posso che mettere sulla testa ciò che tu metti su i piedi (o viceversa!). Probabilmente si può sospendere la questione.
A questo punto rimane da analizzare diversità ed uguaglianza. Il mondo ha mi pare il carattere del divenire e del caos, cioè dell'estrema differenza, acuendo la vista non facciamo altro che distinguere cose che prima ci sembravano unite. Solo una sorta di necessità vitale di "essere" e di consolidamento porta la ragione a fissare forme, quantità, essenze tramite i principi cardini della logica (identificazione e non contraddizione in primis). La dialettica è proprio l'atto fondamentale di interazione col mondo caotico reso com-prensibile. Hegel parlerebbe di tesi e antitesi, Nietzsche di apollineo e dionisiaco. Non esiste differenza senza l'uguaglianza e viceversa.
Concludendo ci ritroviamo ancora allo stesso problema visto con due gerarchie diverse: l'Uno deve affermarsi sulla diversità raccogliendo l'oggetto in una sintesi oppure l'Uno deve "dissolversi" immergendosi nel fiume eracliteo e dionisiaco?
In ogni caso il dialogo è per me sempre e comunque con sè stessi, fra volontà e rappresentazione.
Fatico tremendamente a tagliare corto, me ne scuso!
Se la priorità è data all'idea e quindi alla ragione e alla verità e all'essere allora è possibile fondare un universalismo, una scienza e un dialogo costruttivo. Se invece è l'apparenza, il caos diveniente e l'arte l'ultima realtà possiamo soltanto avere una sorta di nichilismo/relativismo (superabile chiaramente).
Il dialogo non è necessariamente negato nella seconda ipotesi, ma certo vige su una indeterminatezza di fondo e probabilmente non sarà costruttivo in un senso universale civile o per l'umanità, lo sarà per l'individuo nel suo vivere.
Ti portavo infatti l'esempio di Wittgenstein che nel Tractatus fa proprio questo tentativo, ma nel suo sviluppo depone dal trono l'uno per scendere nel regno del molteplice. Nella sua seguente teoria dei giochi linguistici ogni uomo viaggia colle sue categorie e trova un intesa ogni volta diversa e sempre "in gioco" cogli altri e col mondo. Ci sono delle affinità (familiarità) ma mai un unità totale.
Jean Luc Nancy, nel suo bellissimo saggio "La comunità inoperosa",ha aperto un spazio tutto alternativo di riflessione: concepire la relazione, la "comunità", facendo leva sul nulla che essa stessa è, non qualcosa da riempire di volta in volta "operando" ma un onere originario che esiste da sempre perchè è la nostra apertura (un modo fondamentale del dasein heideggeriano è il mit-dasein, sicchè anche lo stare da soli è una modalità, anche se difettiva del mitdasein) e per il quale ognuno è cum-munus cioè "onerato", obbligato, destinato all'altro che è eterno e insuperabile (altro che aufhebung!).
Questa strada, problematica e affascinante, supera un'aporia essenzale ai ogni fondazionalismo universalistico: il pericolo che l'attenzione per il fondamento faccia scomparire i dialoganti, l'uomo.
Cordiali saluti, complimenti per il blog.
Ma basta avere qualcosa in comune per fondare una vita civile? A mio avviso no. Bisgona avere in comune la Ragione perchè solo nell'attività razionale è possibile un intendersi sicuro, efficace e soprattutto costruittivo. Non a caso il mistico e il folle si autoescludono dalla comunità civile, perchè non sanno e non possono viverci! Su Nancy: non conosco il saggio e provvederò presto a colmare la lacuna! Grazie!