Schelling: la tragedia tra Libertà e Necessità

In un recente intervento ho già avuto modo di tratteggiare il il rapporto di Schelling con l'arte cristiana, facendo riferimento soprattutto alla Filosofia dell'arte. Oggi vorrei continuare a percorrere questo solco, nella convinzione che la tradizione occidentale sia stata in grado di veicolare una rosa importante di idee estetiche e visioni dell'arte, che in questi tempi non riusciamo ad apprezzare adeguatamente. Ai giorni nostri, difatti, è passata un'idea pseudo-kantiana secondo la quale l'arte si occupa soltanto del bello, che è pressocchè inutile per la vita umana ed è una mera aggiunta estetica all'esperienza "reale". Se è vero che il mondo attuale giudica i "prodotti umani" in virtù della loro spendibilità e praticità, non stupisce che l'arte, intesa in quel modo, trovi poco spazio nella vita di un uomo adulto e persino sui banchi di scuola. Recentemente ho avuto modo di apprezzare l'immensa riflessione estetica schellinghiana, in particolar modo i passi riguardanti la tragedia greca; vorrei portarli alla vostra attenzione, con l'intento di mettere alla prova l'idea di arte intesa come un'appendice, un qualcosa che si può agganciare o sganciare su una struttura solida composta da cose "pratiche" e "concrete".

Dal punto di vista di Schelling, la tragedia greca è una rappresentazione (Darstellung) di quella conflittualità propriamente umana tra Libertà e Necessità. La tragedia, su tutte le arti, mette in scena, rende visibile, quella contraddizione tra un Fatum oggettivo e sovrapotente (Übermacht) contro la libertà umana, con esso in perenne lotta. Credo che non sia necessario essere un lettore/fruitore di tragedie o un frequentatore di teatri per apprezzare questo modo di tematizzare un conflitto che ci troviamo dinanzi quotidianamente: tra un piano necessario e oggettivo - che può essere quello delle leggi, della causalità fisica, del meccanicismo, dell'istituzione etc. - contro la volontà che si autodetermina liberamente, come se non esistesse alcuna rete e alcun limite. Ognuno nella vita di tutti i giorni, benchè si senta padrone di se stesso e in diritto/dovere di esercitare la propria Signoria su di sè, si trova a fare i conti con strutture invalicabili, che appaiono tanto oggettive quanto oppressive. Alcuni uomini, nella storia del pensiero, hanno identificato buona parte di queste strutture con quelle della Società, puntando a far slittare quella lotta tra Libertà e Necessità nei termini della lotta tra il singolo e le Istituzioni. In effetti anche nel rapporto del cittadino con lo Stato - come ben sapeva Hegel -, l'uomo vive un riflesso di quel polemos che sembra abitare ogni luogo e caratterizzare ogni azione umana.

L'arte, tornando a Schelling, tocca direttamente questa esperienza umana ed è capace di offrircene una rappresentazione. Non solo: è in grado di mimare una conciliazione verso un piano più alto. L'eroe tragico vive il dolore di una lotta che è perdente per definizione, ma che acquisisce dignità proprio perchè è espressione della libertà umana: « Edipo è un mortale destinato dal Fatum a diventare un criminale, in lotta lui stesso contro questo Fatum, eppure temibilmente punito per un crimine che era opera del destino!». Nell'Edipo, al culmine della tragedia, Libertà e Necessità si identificano, poichè Edipo volontariamente giunge ad accecarsi; si fa carico della colpa e carnefice della punizione che il Fatum gli destina, realizzando perfetta conciliazione tra la propria libertà - massimamente espressa nel processo che va dal dolore iniziale alla lotta fino all'automutilazione - e il Fatum, legge oggettiva e di un piano ulteriore. Se l'arte - in questo caso per Schelling la tragedia - riesce a toccare l'essenza della vita umana, riesce a tematizzare quelle insiedie e quelle aporie che il cammino ci pone dinanzi, allora essa non può essere percepita come un qualcosa di aggiuntivo, ma deve tornare a essere parte integrante della nostra vita. Come nella "teatrocrazia" greca, l'uomo attuale dovrebbe tornare a interrogare il teatro, la pittura, la musica e in generale la forma artistica, per iniziare a comprendersi e comprendere il mondo nel quale siamo immersi e siamo chiamati ad attraversare.

Commenti

giuseppe giambuzzi ha detto…
Potremmo definire la Modernità che viviamo un tentativo di fuggire il "senso del tragico"?
Beh, se per tragico intendiamo ciò che intende Schelling, assolutamente sì! Quel senso del tragico è insito nella natura umana e censurare le sua rappresentazioni è come mettere la testa nella sabbia.
sgubonius ha detto…
Per quanto intendi tu, giuseppe, credo che il riferimento obbligato sia Nietzsche, che ha cominciato la sua riflessione proprio dalla nascita della tragedia, e dalla sua morte nel tardo V secolo con Socrate ed Euripide, cioè coll'alba del mondo pensato "modernamente", ovvero in fuga dall'orrore dionisiaco.

Sarebbe interessante, ritornando a Schelling, analizzare comparativamente questa concezione della tragedia con quelle di Holderlin ed Hegel, osando forse perfino Kierkegaard. In due parole, mi pare che sia Hegel che Kierkegaard concepiscano il momento della tragedia greca (spirito/stato etico) come antecedente e inferiore a quello religioso, dato che la necessità non è ancora "libera" (in K. per la verità l'Antigone è già molto avanti nel processo). Schelling sembra invece riconoscere già nella tragedia una esperienza completa di libertà e necessità. In questo è più vicino ad Holderlin.
Sbub! Fenomenale come al solito. Dunque, ho letto qualcosa sul tema, soprattutto in rapporto a Holderlin, rispetto al quale muta il contesto di riferimento. Voglio dire, in Holderlin la tragedia è quella rappresentazione (affine a S.) del rapporto tra parti e tutto, nella quale la parte "soffre" e "sente" questo tutto. Però in H. ci si muove sempre nell'ambito dell'essere, su un piano solo.

Per Schelling invece l'arte in generale (e al suo sommo grado la tragedia) ha la capacità di predicare un'in-differenza che si situa oltre l'ambito, per così dire, dell'essere. La tragedia "Libertà e Necessità si identificano", toccando un piano ulteriore - anzi, "precedente".
sgubonius ha detto…
La vicinanza non raramente nasconde delle profondità abissali nel mezzo, sicuramente Holderlin e Schelling sono tanto affini quanto impossibili da unire in una salda coappartenenza concettuale. Per giocare un po' si potrebbe pensare alla famosa creazione di Adamo di Michelangelo, Holderlin starebbe ovviamente dalla parte dell'Adamo, della terra, dell'immanenza, mentre Schelling si libra nell'aere in abitino rosa!
Carlo ha detto…
Tema molto interessante e ben svolto. Ti consiglio di leggere "Del tragico" di Karl Jaspers e noto, fra parentesi, l'incompatibilità tra il mondo della tragedia ed il mondo cristiano, che non ha mai conosciuto una visione tragica dell'esistenza in quanto offre una salvezza finale.
giuseppe giambuzzi ha detto…
Mi riferivo, forse impropiamente, al fatto che lo spirito tragico richiede una consapevolezza della propria finitezza umana, sopratutto richiede l'accettazione dell'esistenza stessa del conflitto. L'eroe tragico sa almeno in parte già all'inizio che verrà sconfitto e questa sconfitta è la vittoria del Coro da l'eroe si era staccato.

L' Uomo moderno nel suo cercare un senso nella sola propria esistenza non può essere tragico perchè esclude la possibilità della sconfitta. Non esce e non rientra dal coro perchè nega l'esistenza stessa di un coro ma solo "personae".
Forse l'unico residuo di Tragedia è proprio in questa illusione di "individualità di massa"
Giuseppe condivido quello che scrivi, soprattutto per quanto riguarda l'uomo moderno. Devo però sottolineare, per amore "storico" (!), come Schelling possa parlare di unità proprio perchè, al contrario di quanto dici, non crede che l'eroe tragico sia sconfitto. Per Schelling (e non credo che sia così anche per Holderlin e Hegel) l'accettazione significa cessare di essere Due - Fatum e eroe - e divenire Uno (Edipo si acceca volontariamente e si fa mano reale della volontà del Fatum perchè si identifica con il Fatum). Può apparire un esercizio retorico, ma per Schelling il superamento dell'opposizione Necessità/Libertà si rtealizza proprio quando Edipo si acceca.

Carlo: mi segno con piacere il testo di Jaspers anche perchè non ho l'abitudine di leggere autori "esistenzialistici" e difatti ho un bella carenza, a cui solitamente supplisce il buon Sgubonius. In secondo luogo, per rispondere allo spunto, non so se il Cristianesimo sia davvero lontano dal tragico. In realtà si dovrebbe sempre parlare di Cristianesimi, al plurale, perchè le tradizioni spesso hanno dato vita a forme religiose differenti. E lo dico non come semplice annotazione colta ma perchè potrebbero esserci state forme di Cristinesimo molto più attente al tragico di quanto possiamo renderci conto. E penso ad esempio - ma non ne ho una buona conoscenza - al cristianesimo nordico, quello da cui arriva Kierkegaard, per intenderci. Ma ripeto, non ne so molto, anche perchè tu fai chiaro riferimento a tutta la tematica biblica del post-mortem, che meriterebbe tutto un discorso apparte (e che magari nei prossimi post, se ho tempo, affronto). Al contrario posso confermare come più che il Cristianesimo, sia stata la Filosofia ad allontanarsi dal tragico. Difatti la "sintesi" (passatemi il termine) Schellinghiana di quei due logoi sembra rispondere proprio alla vocazione anti-tragica della filosofia, che è sempre presa dall'ossessione della reductio ad Unum. La filosofia nasce anti-tragica e prosegue il cammino o cercando di evitare quell'aporia costitutiva dei Due che appare nella tragedia (e pensiamo, ancora, a Holderlin) o, al limite, riducendola ad una semplice tappa nel cammino verso l'unico Essere. Insomma, quella "potenza" del tragico, che nel Romanticismo ritorna prepotentemente, sembra esser stata dimenticata nel cammino filosofico. E forse, proprio nella misura in cui la filosofia è distante dalla tragedia, allora anche la religione Cristiana Cattolica, in virtù della sua radice filosofica, sembra lontana anch'essa dalla tragedia. Ma ora sto procedendo sulla via del ragionamento, senza riferimenti ben precisi. Un autore che invece ha cercato di assumere quella "potenza del negativo" (la terminologia è sua) in maniera radicale e aporetica è Hegel, che ne ha fatto il metodo proprio della speculazione. Ma anche lì tutto ha come fine la riconciliazione ad Unum.
sgubonius ha detto…
Una certa riconciliazione ad unum di libertà e necessità c'è in tutti e tre i filosofi citati, ma come dicevo c'è una differenza nei momenti scanditi che è interessante. Per Kierkegaard è l'Abramo o Cristo, non l'Antigone, che fa di un fatum una libera scelta, idem per Hegel (nello Spirito, libro VI della fenomenologia, l'eticità del necessario tragico e la cultura della libertà illuminista si "rilevano" nella morale come "libera necessità"). Per questi Edipo si accecherebbe per occultarsi lo spettacolo del fato più che per assecondarlo, e il tragico (opporsi disperato) sarebbe lontano dallo stato religioso della rivelazione.

Kierkegaard peraltro riconosce nella tragedia moderna una perdita di innocenza (il senso di colpa) ma non per questo il moderno sarebbe non "tragico".

Ma, per l'appunto come nel caso di Schelling o Nietzsche, la differenza passa probabilmente più nell'interpretazione della parola "tragico" (a includere o escludere la libertà), mentre l'ideale di sintesi resta sempre in auge (fino all'amor fati).

La modernità (parere personale qui) ha smarrito soprattutto quello che Bataille chiamava 'dépense', che ha a che fare con l'essenza tragica della lotta disperata. Siamo troppo abituati a fare le cose per uno scopo (il vero è l'intero ahinoi), ivi comprese certe escatologie cristiane (la virtù della caritas per esempio è un pozzo senza fondo di ambiguità). Se uno come Kierkegaard vedeva nella religione un salto nell'assurdo, poteva benissimo concepirla come evoluzione del tragico. Oggi invece domina un ragionamento di stampo economico per cui l'assurdo non è più conveniente, e con esso il tragico, bisogna essere razionali e non perdere tempo in battaglie disperate.
Marco Di Sciullo ha detto…
Complimenti a tutti , ad Andrea per l'impegno,la serietà e la competenza . A Giuseppe per l'onestà espressiva. Un particolare encomio a Sgubonius, semplicemente eccellente in ogni suo intervento. Oggi ho avuto modo di ammirare le primissime immagini della galassia Andromeda inviateci dalla missione NASA Wise. Pensate ,Andromeda è lontana da noi ben 2,5 milioni di anni luce. Pensate ; la luce viaggia a 300.000 Km al secondo. In un minuto percorre 1.800.000 Km; in una ora ben 1.080.000.000. E qui mi fermo. Mi sono dimenticato di dirvi che Andromeda è una delle galassie più vicina a noi. Dove sarà la più lontana? Potrebbe ,forse, essere proprio la presa di coscienza di questi spazi che segnano appena l'origine del concetto "infinito" l'origine della tragedia? Oppure potrebbe essere l'infinito vuoto della nostra coscienza ,rinchiusa nella siderale "volgare" materia del nostro corpo ad originare la condizione tragica del divenire umano? A tal proposito ,caro Sgubonius, considero semplicemente mirabile l'esempio portato della creazione di Adamo di Michelangelo a proposito della vicinanza/differenza tra Holderlin e Schelling. Tornando al tema è proprio la presa di coscienza della propria limitatezza , indipendentemente dalle cause che la determinano, il motore e l'origine prima dell'arte ,intesa come creazione e "fuga/modifica" dalla realtà percepita. Vi è una relazione di proporzionalità diretta tra la percezione della propria "limitatezza" ed il momento creativo. La tragedia è una condizione della nostra coscienza che fatica ad assumere in se stessa l'infinitamente immenso e misterioso della propria origine. D'accordo con Carlo quando ricorda "l'incompatibilita' " tra tragedia e cristianesimo. Il motivo sta proprio nel messaggio di salvezza cristiana che rappresenta l'immortalità. Ed è proprio questa condizione di grazia del credente che gli consente di interagire con il "creato" e, come il non credente,ma in maniera diversa, avverte ed assume in se stesso la propria assoluta limitatezza materiale del proprio essere "terreno". Quindi, mentre per il cristiano la sua imperfetta "condizione terrena" rappresenta non un limite od una "limitazione" ,ma bensì il mezzo attraverso il quale "guadagnarsi" la salvezza, la redenzione , la vita eterna. Per il "non credente" , per "gli amanti della sapienza" che si affidano solo alla propria "volontà di potenza" , la percezione delle proprie ed altrui limitazioni sono l'origine prima di immensa e profonda creatività non solo di "bellezza" ma di tragedie individuali e collettive. Un caro saluto.
Sgubonius, è vero, probabilmente la differenza passa proprio per l'interpretazione della parola "tragico". Mi stupisce come il nostro approccio nei confronti del "moderno" sia pressocchè lo stesso, nonostante le differenze importanti che passino tra di noi, dall'età agli studi, dalla formazione ai luoghi frequentati. E mi stupice non tanto come dato fine a se stesso: non capisco come questo "moderno" possa correre incontrastato nonostante tutti noi.
giuseppe giambuzzi ha detto…
Forse perchè questo "moderno", che Severino definirebbe uno sviluppo della potenza delle Tecnè ( oh....ho fatto una citazione anch'io), con la conseguente laceraione che provoca, è il tema dominante della nostra cultura dall'illuminismo ad oggi.
sgubonius ha detto…
Beh Marco, non tutta la cristianità ha questa mancanza di tragicità, esistono dottrine della grazia molto rigorose per cui la salvezza è una eventualità incontrollabile. E d'altro canto nella tragedia stessa c'è sempre un "riappropriarsi" catartico, che ritorna ad una escatologia di base.

Riguardo alla modernità, secondo certe letture nietzschiane, heideggeriane e soprattutto di Derrida, che pensano il moderno come tecnica, utilitarismo, economia, esso non può che trionfare. E' una questione di mera "selezione naturale": con la tecnica (e l'economia) si padroneggia l'ente, padroneggiando l'ente si "è presenti" e si domina. La modernità sarebbe quindi un processo in corso da 2500 anni, o da sempre, e nel continuo peggiorarsi si crede sempre che sia una cosa recente.
Accenno soltanto di sfuggita il tema che si presenta qui: quello della Differenza, cioè di qualcosa che non (si) può dominare, che non è mai ente, e che perciò può solo essere "strappato", sottratto. E si capisce anche perché ci sono delle affinità enormi con la teologia negativa. In questo caso la tecnica (per esempio il linguaggio) sarebbe addirittura una necessità o un opportunità, dato che come dice Holderlin "dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva" (o più brutalmente Nietzsche farebbe un elogio dell'eccezione e dell'esigenza di inferiori perché ci siano superiori, che pure è l'altra faccia della stessa medaglia).
Marco Di Sciullo ha detto…
Concordo, come sempre, con te. La tragedia è una condizione, se mi passi il termine, che è parte costitutiva dell'uomo. Essere "ad immagine e somiglianza di Dio" senza averne le "facoltà" è di per se "tragedia". Ma io, carissimo Sgubonius, mi riferivo al mio sentire, alla mia condizione di cristiano che mi semplifica di molto le cose. Con stima.
sgubonius ha detto…
Volevo solo complicare un po' le cose!! :D
Grazie a tutti per la discussione, che credo sia rimasta sempre su livelli altissimi. Magari in Università si partecipasse con questa passione, qualità e interesse! Kant scriveva che la filosofia è dove c'è coraggio e intelligenza e voi ne avete dimostrata tanta.