Su Vito Mancuso, un confronto con M.Vannini e B.Forte
Oggi vorrei segnalare un'intervista a Marco Vannini uscita per Libero a questo indirizzo incentrata sulla figura di Vito Mancuso, teologo "cattolico", ultimamente sotto i riflettori grazie all'operosa attività divulgativa grazie alla quale sta facendo parlare di sè un po' tutta l'Italia cristiana. Le tesi teologiche esposte da Mancuso nei suoi ultimi scritti non sembrano essere state particolarmente gradite al mondo cattolico eppure paradossalmente hanno riscosso un buon numero di consensi tra non-credenti e credenti un po' disillusi. Dal punto di vista di Vannini, questo atipico successo è dovuto al fatto che Mancuso «presenta un cristianesimo senza peccato, senza conversione, senza redenzione, senza grazia, che perciò si accorda tranquillamente con il mondo secolarizzato dei nostri giorni - anzi col “mondo”, come categoria evangelica». Oltre ai sospetti dal fronte dottrinale si aggiungono recenti fastidi procurati dal giovane teologo alla Chiesa in materia di politica ecclesiastica: è il caso, ad esempio, della polemica sviluppatasi sulla colonne de Il Foglio durante la quale Mancuso ha avuto parole dure nei confronti della gerarchia in materia di contraccezione. Mancuso non solo chiede di riconsiderare la posizione espressa più volte dalla Chiesa, ma utilizza termini forti quali «dovere morale» e «persona responsabile». («Favorire una protezione di tali rapporti per evitare gravidanze indesiderate e quindi aborti, come pure per contrastare il diffondersi dell’Aids, è un dovere morale di ogni persona responsabile». - qui la fonte).
Tra le prime reazioni alle tesi di Mancuso mi piace rispolverare le riflessioni di Bruno Forte, pubblicate oramai un anno e mezzo fà su L'Osservatore Romano sotto l'emblematico titolo "Gnosi di ritorno e linguaggio consolatorio":
Questo piccolo scorcio ha avuto la pretesa di dar voce a tre posizioni differenti all'interno della Chiesa stessa per testimoniare - benchè non ce ne fosse nuovamente bisogno - quanto complesso rimanga il dibattito interno alla comunità dei credenti e come possa essere interessante anche per chi, come il sottoscritto, scruti "da lontano". Le diverse letture degli autori e dei pensieri cardine della nostra tradizione culturale - prima che ecclesiastica - non sono mai fine a se stesse ma ancora una volta in questo caso risultano decisive per l'analisi dell'agire dell'uomo - cristiano o no - nel mondo contemporaneo. D'altronde, come ricorda Vannini, per Simone Weil è chiaro come chiunque ami e cerchi la verità, in ogni tempo e in ogni luogo, sia, in fondo, cristiano.
Tra le prime reazioni alle tesi di Mancuso mi piace rispolverare le riflessioni di Bruno Forte, pubblicate oramai un anno e mezzo fà su L'Osservatore Romano sotto l'emblematico titolo "Gnosi di ritorno e linguaggio consolatorio":
L'insieme di queste tesi si rifà a un'opzione profonda, che emerge da molte delle pagine del libro: quella che non esiterei a definire una "gnosi" di ritorno, presentata nella forma di un linguaggio rassicurante e consolatorio, da cui molti oggi si sentono attratti. "Io penso - afferma l'autore - che l'esercizio della ragione sia l'unica condizione perché il discorso su Dio oggi possa sussistere legittimamente come discorso sulla verità" (315). Il problema è di quale ragione si parla: quella totalizzante della modernità, che ha prodotto tanta violenza nelle sue espressioni ideologiche? O quella che il Logos creatore ha impresso come immagine divina nella creatura capax Dei? E se di questa si tratta, come si può assolutizzarla fino al punto da ritenere superfluo ogni intervento dall'alto, quasi che il lumen rationis escluda il bisogno del lumen fidei? Cristo sarebbe venuto invano? E la fragilità del pensare e dell'agire umano sarebbe inganno, perché nessuna debolezza originaria degli eredi del primo Adamo si opporrebbe alla potenza di una ragione ordinatamente applicata?Una posizione alternativa a quella di Forte ma ugualmente interna alla Chiesa Cattolica anche se priva di porpora cardinalizia o bastone vescovile, è espressa da Marco Vannini, che da buon filosofo cerca anzitutto le radici storico-filosofiche delle idee di Mancuso. Vannini nota come Mancuso faccia uso parziale del pensiero di Simone Weil e finisca per deviarne il senso più radicale:
se c’è una cosa che contesto davvero al mio amico Vito Mancuso è proprio questo suo richiamarsi alla Weil. Infatti nella scrittrice francese è fondamentale l’evangelica rinuncia a se stessi, ovvero al proprio io, alla propria volontà: quella che ella chiama “decreazione”. La Weil vede la dimensione naturale dell’uomo tutta sottomessa all’egoismo, e perciò opposta al regno della grazia, che invece si apre proprio quando l’uomo fa il vuoto in e di stesso, “odia la propria anima”. In parallelo, la Weil pensa che la libertà che l’uomo crede di esercitare quando è privo di legami sia del tutto illusoria, perché l’uomo è soggetto alle leggi della natura e al suo determinismo, per cui di libertà vera si può parlare solo nella grazia - quando, appunto, è morto l’io naturale : “Dire ’io sono libero’ è una pura illusione - scrive - giacché a dire ’io’ è ciò che non è libero in me”. Su questi punti cruciali il pensiero di Mancuso è quanto di più antiweiliano ci sia.Per Vannini, insomma, Mancuso indebolisce il messaggio forte del Vangelo e finisce per conciliarlo con il mondo. Ben si comprende come questa posizione risulti difficile da accettarsi per un lettore di Paolo e studioso di mistica - ma sarebbe tale anche per Nietzsche e Kierkegaard - impegnato a sottolineare proprio l'opposto, ossia la rottura tra il mondo e la Croce. Vannini è parzialmente critico anche riguardo la posizioni di Forte, almeno per quanto riguarda l'accusa di gnosi: «posso dire che non concordo affatto con la motivazione che mi è sembrata prevalente in queste censure, ossia l’accusa a Mancuso di essere uno gnostico, perché, se c’è qualcuno che gnostico non è, questo è proprio lui. Infatti, gnosticismo vuol dire essenzialmente opposizione luce-tenebre, Dio-mondo, spirito-materia, mentre nell’ultimo libro di Mancuso il pensiero è proprio opposto».
Questo piccolo scorcio ha avuto la pretesa di dar voce a tre posizioni differenti all'interno della Chiesa stessa per testimoniare - benchè non ce ne fosse nuovamente bisogno - quanto complesso rimanga il dibattito interno alla comunità dei credenti e come possa essere interessante anche per chi, come il sottoscritto, scruti "da lontano". Le diverse letture degli autori e dei pensieri cardine della nostra tradizione culturale - prima che ecclesiastica - non sono mai fine a se stesse ma ancora una volta in questo caso risultano decisive per l'analisi dell'agire dell'uomo - cristiano o no - nel mondo contemporaneo. D'altronde, come ricorda Vannini, per Simone Weil è chiaro come chiunque ami e cerchi la verità, in ogni tempo e in ogni luogo, sia, in fondo, cristiano.
Commenti
Prendo spunto da una tua frase perriformulare una domanda: "in realtà non tutti i cristiani amano sentir parlare di distacco, di rinuncia a se stesso, al proprio “io”, di conversione."
Il punto è: ma che cristiani sono se non voglion sentir parlare del nucleo essenziale del cristianesimo? Di quell'abnegare semet ipsum che poi è il vero eu-angelion! Questo mi rimanda un po' a Nietzsche che tuonava: uno soltanto è stato cristiano ed egli è morto in croce! Non so, sembrano prospettive opposte ma portano entrambe alla domanda: è possibile, e se sì in quale misura, per un uomo dirsi cristiano?
Io non lo sono, non riesco a dirmi cristiano. E non è un'esercizio retorico per ergersi a saggio, ma mi domando se questo minestrone che è il mondo cristiano contemporaneo si sia mai posto seriamente, con coscienza, questa domanda.