"Sul dialogo": quale verità nel dialogare?
Se la priorità è data all'idea e quindi alla ragione e alla verità e all'essere allora è possibile fondare un universalismo, una scienza e un dialogo costruttivo. Se invece è l'apparenza, il caos diveniente e l'arte l'ultima realtà possiamo soltanto avere una sorta di nichilismo/relativismo (superabile chiaramente).
La riflessione odierna parte da queste poche righe del nostro Sgubonius, che tanto bene sintetizzano il dilemma centrale di tante discussioni in questo luogo informatico e che attraversa perpendicolarmente tutta la tradizione filosofica precedente, ovvero: nel fondare la scienza e la conoscenza, più in generale nell'analisi di ogni dimensione cosciente della vita, è originaria la Ragione o il Caos? (Nietzschianamente: Apollo o Dioniso?) Questo nodo sembrerebbe rimandarci verso ragionamenti e riflessioni astratte o tipicamente metafisiche, che poco hanno da spartire con la dimensione del dialogo. Eppure proprio il decidersi verso l'uno o verso l'altro, come scrive Sgubonius, viene a costituirsi come una scelta decisiva perchè significa poggiare una pietra sulla quale poi è possibile costruire tutta una teoria del dialogo e dalla quale dipenderemo in tutto il nostro discorso, perchè "scegliere" l'una significa precludersi le vie dell'altra. La "scelta" sull'originarietà del principio d'ordine o sul caos in-forme e in-costante ci interessa direttamente perchè se è possibile rinvenire un principio razionale diviene possibile raggiungerlo con la ragione e in particolar modo con la ragione-dialogante, perchè non è chiusa al solipsismo del sè ma è aperta all'imprevidibilità dell'altro. Ma quale tipo di scelta ci accingiamo a compiere? Da cosa sarà guidata e quali valori ne determineranno l'esito? Il vortice degli interrogativi sembra prenderci per condurci verso un "ritorno all'origine" delle nostre questioni: quali valori debbano dirigere la scelta umana? Rimando dunque alle precedenti riflessioni sulla Ragione, unica luce comune dell'oscura dinamica identità-differenza, costitutiva del mondo. In altre parole, risolvere questo punto significa dare risposta alla domanda sulla pretesa di verità che possiamo avanzare nel dialogo e, riflesso, sulla pretesa di verità di ogni umano ragionamento. Nei commenti all'intervento precedente analizzavo la questione e accennavo ad una possibile via "a posteriori" per giustificare una "scelta" per l'apollinea o platonica Ragione piuttosto che per il mondo del Caos: se il dialogo non potesse giungere a verità universali, che senso avrebbe dialogare? Quale vantaggio concreto, reale, avremmo nel dialogare? Riconoscere che l'esperienza del dialogo porti una aggiunta di verità, un "novum" vero, significa, di necessità, ammettere come presupposti sia la portata veritativa del dialogo sia, e non è poco, le nostre possibilità di comprendere a fondo l'universale, il mondo, la vita.
Occorre dunque divenire intelletto, affidare all'intelletto la propria anima e collocarla lì sotto, affinchè possa ricevere ben sveglia quelle cose che egli vede; per mezzo dell'intelletto bisogna contemplare l'Uno, non aggiungendo alcuna sensazione nè collocando in lui cosa che da lei si riceva; al contrario, è necessario contemplare il purissimo con l'intelletto puro e con il suo momento primo.
Plotino, Enneadi, VI, IX, 3,22-27
Per abitudine metodologica, ho solitamente cercato di evitare le citazioni e i pensieri altrui per cercare di non appesantire un discorso che deve innanzitutto scaturire dalle nostre esigenze e non deve divenire discussione sulla storia della filosofia o mera filologia. Ho tuttavia ritenuto opportuno chiudere l'intervento con questo rimando alle Enneadi perchè credo che Plotino abbia saputo ben condensare tutta la questione dell'universale e del fondamento dialogante, a noi cara, proponendo una via davvero "inattuale", non perchè passata, ma perchè tutta da scoprire.
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