Uno spot sull'eutanasia
Recentemente su Rai3 sta andando in onda uno spot pro-eutanasia firmato dai Radicali (lo avrete sicuramente incrociato, ma comunque è facilmente reperibile su internet), che oggi vorrei brevemente commentare. Ciò che mi interessa discutere non è tanto la mia opinione in merito all'eutanasia o esprimere un giudizio di valore sul filmato; vorrei bensì limitarmi ad analizzare l'argomentazione che viene proposta e provare a riflettere senza la pretesa di un giudizio globale in riferimento ad una questione così delicata e complessa come quel nostro viaggio nell'abisso della morte. Una questione la cui complessità e la delicatezza spinge a stare attenti, a muoversi con cautela, e che forse nella trasmissione pubblicitaria e nella forma dello spot risulta – è questa la prima impressione - avvilita e ridotta, benché il messaggio sembri limpido, pacato e riflettuto. Il malato che ci parla con il cuore in mano a pieno schermo ci proietta dunque in una sorta di atmosfera da confessione, da “ultimo giorno”, nella quale si rivendica il diritto ad una scelta in merito alla propria morte; quella stessa atmosfera che in onda sulla televisione delle “veline” sembra piuttosto una parodia dei reali momenti della vita. Durante il monologo vengono elencate tutta una serie di decisioni che nella nostra vita spettano a noi e soltanto a noi, tutte prese con gran senso di responsabilità e tutte decisive per la costruzione di quel cammino strettamente personale che è la vita di ognuno: «ho scelto di fare l'università [...] di sposare Tina» e allo stesso modo, «ho fatto la mia scelta finale». Così argomenta il messaggio, che sembra dunque fare leva sull'idea che un uomo – e solo lui – ha il diritto/dovere di scegliere su ciò che riguarda soltanto lui stesso, su ciò che gli appartiene e che ha a che fare con la propria responsabilità. Nel filmato è tuttavia chiaro come non tutto si possa sottoporre ad una scelta, difatti non scegliamo la malattia, né che la propria famiglia debba subire e accollarsi i problemi legati alla malattia.
Ciò che tuttavia viene fatto passare sotto banco e che secondo me è il tema vero da affrontare è allora capire se e fino a che punto la morte sia una nostra scelta; se e fino a che punto la nostra morte possa essere abbinata a quel secondo gruppo, per così dire, di eventi e questioni che non appartengono alla nostra giurisdizione, che al pari della malattia non costituiscono la nostra scelta, oppure al primo, “di ciò che è frutto di una scelta consapevole”. Compito del filosofo è allora porre in questione questa “appartenenza” e capire se ciò che riguarda la nostra morte può essere posto sullo stesso piano – come volutamente prova a fare il filmato – di ciò che decidiamo per la nostra vita. Allora, forse, il punto debole di questo tipo di approccio sta proprio nel modo piano e lineare di affrontare il tema della morte: esso viene dato come scontato, come un fatto della vita che è in tuo potere. Ma il potere della morte non è tuo, pertanto, argomenterebbe Epicuro, tu non devi farti carico della responsabilità della tua morte, che non costituisce un orizzonte di scelta etica. Pensare che la morte sia una scelta significa pensarla come un qual-cosa di valutabile, da porre su un piatto della bilancia. Ma non è forse questo approccio lo stesso tentativo cosificante che ci porta a considerare tutto come concettualizzabile, afferrabile, da rendere cosa del mondo – e, in quanto cosa, possibile oggetto di una scelta, di una proporzione e che possa avere persino un suo prezzo e un suo valore commerciale?
Ecco perchè lo “spot” non convince: è figlio, anch'esso, di questa cultura materialistica e relativista che perdendo l'idea della sacralità della vita può permettersi di costringere gli eventi decisivi dell'esistenza umana, come ad esempio la morte e la nascita, ad un piano del tutto “umano”, perdendone il mistero e la profondità nella quale rimaniamo avvolti e immersi – benchè il nostro mondo faccia di tutto per non voler vedere oltre il muro della nostra piccola conoscenza scientifica, per usare solo gli occhi sensibili e non gli occhi della mente. In conclusione vorrei ancora sottolineare come questo mio intervento non sia tout court contro l'introduzione della legge sull'eutanasia: pur rimanendo su un piano ancora precedente ad una formulazione di legge, ovvero del tutto etico e teorico, trovo che il tema sia talmente delicato e complesso che affrontarlo in un questo contesto sarebbe inappropriato: ciò che si rischia è proprio lo slogan da spot pubblicitario, è quel modo lineare e mai problematico di porre la questioni, atteggiamento da cui dovremmo sempre tenerci distanti.
Ciò che tuttavia viene fatto passare sotto banco e che secondo me è il tema vero da affrontare è allora capire se e fino a che punto la morte sia una nostra scelta; se e fino a che punto la nostra morte possa essere abbinata a quel secondo gruppo, per così dire, di eventi e questioni che non appartengono alla nostra giurisdizione, che al pari della malattia non costituiscono la nostra scelta, oppure al primo, “di ciò che è frutto di una scelta consapevole”. Compito del filosofo è allora porre in questione questa “appartenenza” e capire se ciò che riguarda la nostra morte può essere posto sullo stesso piano – come volutamente prova a fare il filmato – di ciò che decidiamo per la nostra vita. Allora, forse, il punto debole di questo tipo di approccio sta proprio nel modo piano e lineare di affrontare il tema della morte: esso viene dato come scontato, come un fatto della vita che è in tuo potere. Ma il potere della morte non è tuo, pertanto, argomenterebbe Epicuro, tu non devi farti carico della responsabilità della tua morte, che non costituisce un orizzonte di scelta etica. Pensare che la morte sia una scelta significa pensarla come un qual-cosa di valutabile, da porre su un piatto della bilancia. Ma non è forse questo approccio lo stesso tentativo cosificante che ci porta a considerare tutto come concettualizzabile, afferrabile, da rendere cosa del mondo – e, in quanto cosa, possibile oggetto di una scelta, di una proporzione e che possa avere persino un suo prezzo e un suo valore commerciale?
Ecco perchè lo “spot” non convince: è figlio, anch'esso, di questa cultura materialistica e relativista che perdendo l'idea della sacralità della vita può permettersi di costringere gli eventi decisivi dell'esistenza umana, come ad esempio la morte e la nascita, ad un piano del tutto “umano”, perdendone il mistero e la profondità nella quale rimaniamo avvolti e immersi – benchè il nostro mondo faccia di tutto per non voler vedere oltre il muro della nostra piccola conoscenza scientifica, per usare solo gli occhi sensibili e non gli occhi della mente. In conclusione vorrei ancora sottolineare come questo mio intervento non sia tout court contro l'introduzione della legge sull'eutanasia: pur rimanendo su un piano ancora precedente ad una formulazione di legge, ovvero del tutto etico e teorico, trovo che il tema sia talmente delicato e complesso che affrontarlo in un questo contesto sarebbe inappropriato: ciò che si rischia è proprio lo slogan da spot pubblicitario, è quel modo lineare e mai problematico di porre la questioni, atteggiamento da cui dovremmo sempre tenerci distanti.
Commenti
Comunque pensavo di essere tra i pochi a protendere tendenzialmente "contro" l'aborto e tendenzialmente a "favore" - che brutto linguaggio pseudo-referendario! - dell'eutanasia; questa nostra vicinanza, Carlo, non può che rallegrarmi.
:)
Se il punto centrale è la libera scelta del singolo, essa manca nell'aborto, dove sono altri a decidere della vita (o della morte) dell'interessato, mentre può essere presente (a meno che non ci siano indebite pressioni familiari) nel caso del fine-vita (altra orrenda parola). Ecco perchè i due casi mi sembrano molto diversi.
Neppure io credo ai "progressi". D'altra parte l'idea di rifiutare una vita sentita come indegnaè, invece, antichissima. Viene da pensare a quelli stoici dell'età imperiale che esercitavano il suicidio come forma di ribellione all'oppressione imperiale.
Trovo che sia equivoca la sacralizzazione della Natura che usa fare Ratzinger. Se Dio ama gli uomini fino al sacrificio del Figlio, la Natura, invece, dà e toglie la vita agli uomini con sovrana indifferenza. Che sia "sacro" un terremoto, qualche brutta malattia o una eruzione vulcanica solo perchè assolutamente "naturali", mi sembra cosa un pò curiosa o addirittura grottesca.
Ma è colpa anche della Chiesa che indugia nel sensazionalismo dei miracoli, senza riuscire a far comprendere il significato simbolico e filosofico del Cristianesimo. Per me, che pure non mi sento appartenente a nessuna Chiesa, l'altissimo (ed unico) significato del Cristianesimo è che l'uomo può "essere" divino. Il resto è mitologia, è cibo per animi incolti.