Sull'art. 18: lo difendo perchè sono cristiano e liberale

Questa sera vorrei proporre una breve riflessione in merito al tanto discusso articolo 18 dello statuto dei lavoratori (che riportiamo in nota*), cercando di evitare approcci tecnicistici che in tale materia non mi appartengono. Chiedo inoltre di astrarre l'art.18 dalla sua storia, dall'iter della sua approvazione e dalle battaglie pregresse per cercare di approcciarlo così com'è, per i princìpi che esprime e per il suo valore all'interno del nostro sistema italiano. Anzitutto, di cosa si discute realmente? Il tema è il possibile reintegro di un lavoratore che ha subìto un licenziamento per un motivo che il giudice non ha ritenuto "giustificato" da una "giusta causa". Detto altrimenti - come appare nella vulgata - l'articolo affronta la restrizione del campo di azione di un titolare di azienda superiore ai 15 dipendenti che desideri licenziare uno di loro senza esprimere una "giusta causa"; ossia, il principio espresso suona grosso modo così: se vuoi licenziare un tuo dipendente devi avere un "motivo giustificato".

Il punto della questione, ovviamente, è nell'interpretazione di quel "giustificato", che a mio modo di vedere indica la seguente prescrizione: se vuoi interrompere il rapporto di lavoro con un "tuo" lavoratore, anzitempo rispetto al contratto, tu devi produrre (quantomeno) un'argomentazione razionale di sostegno dell'azione intentata; inoltre tale argomentazione deve trovare terreno fertile nella legge: sarà il giudice che, preso atto dello status questionis, potrà decidere se quel licenziamento potrà essere attuato o se dovrai reintegrare il lavoratore sul posto di lavoro fino a scadenza del regolare contratto. Questo significa che se non disponi di un'argomentazione valida, sostenibile dinanzi alla comunità in cui lavori, non puoi licenziare nessuno.

Letta così, in una situazione come quella dell'Italia (perchè stiamo parlando del mercato del lavoro italiano, dunque nè europeo, nè statunitense nè ipotetico e astratto), l'art.18 sembrerebbe chiedere semplicemente un'assunzione di responsabilità del titolare dinanzi al mondo del lavoro, dinanzi agli altri dipendenti e persino dinanzi all'ipotetico consumatore. Ecco perchè, in riferimento alle varie discussioni televisive, mi pare che allorché si ponga la questione-articolo18 sul piano della "tutela del lavoratore" si sbagli, o, meglio, si restituisca all'ascoltatore un'impressione sbagliata in merito agli effettivi termini in gioco. Quello che è in questione in tal caso non è l'astratta "tutela", che spesso ha un po' il sentore di stantìa difesa dei diritti acquisiti, spesso perpetrata ai danni dei giovani e del merito, quanto la dignità umana del dipendente.

Il limite che si istaura con quei "tu devi" fa sì che, anche in fase di licenziamento, il dipendente (o ex-) non sia percepito come, per così dire, un ramo morto da segare, bensì sia trattato come un uomo, portatore di una precipua dignità e di un valore che oltrepassa la logica del licenziamento-per-utilità. A me pare che, più radicalmente, si possa ammettere come il principio qui in richiamato riguardi la presenza dell'uomo nel mondo (del lavoro) non come un mero strumento di una logica del mercato che lo sovrasta e detiene la proprità. bensì dell'uomo come di un fine in sè (Kant). Se i (presunti) liberali di oggi si sforzassero di ricordare i princìpi dello Stato moderno, a cui loro stessi traggono eminentemente ispirazione, da J. Locke in poi, non penserebbero a rinunciare così facilmente ad una concezione del lavoro che a questo punto emerge davvero come, se posso azzardare, cristiana e, appunto, liberale.

Mi si permetta perciò di esprimere un certo fastidio per il polverone che si sta alzando in questi ultimi giorni di governo "tecnico" - o non democratico - e per le barricate di chi difende l'art18 come una bandiera di un certo sindacalismo di assalto, con il sapore di un ingiallito maxismo di retroguardia; e, al contempo, di manifestare una certa sorpresa per quell'area politica che - inversamente - dovrebbe far riferimento a principi liberali e cristiani e che, invece, pare talvolta più intenta a seguire logiche di opposizione politica che la propria tradizione. [L'immagine riporta, volutamente, San Giuseppe, falegname (1640), ad opera di Georges de la Tour]




*Articolo 18, Legge 300 del 20 maggio 1970. Lo statuto dei lavoratori prevede che il giudice, con la sentenza con cui annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, può ordinare al datore di lavoro, che occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro.

Commenti

sgubonius ha detto…
Buon anno in ritardo caro Andrea!
Ogni tanto passo e mi piace vedere che continui a porti domande, qui mi sentirei di risponderti un po' come qualche tempo fa, siamo sicuri che non sia pericoloso mischiare logiche diverse? E' una di quelle cose che un filosofo impara ad evitare quasi da subito. Un rapporto di lavoro è e resta un rapporto di lavoro, do ut des, contratto -> prestazione -> retribuzione. Tutto questo funziona tanto meglio quanto più si mantiene freddo (razionale, neoclassico, meccanico) nella sua logica. Tutti i problemi del mercato del lavoro (italico) derivano proprio da questo stare sempre con un piede in due scarpe. Il licenziamento non sarebbe così tremendo, se gli altri posti di lavoro non fossero così statici da impedire di ritrovarne un altro.

Capisco che poi il tuo punto di vista sia più "umano", ma non sarà comunque l'ottica usata dall'imprenditore. Tanto che per ora il risultato è avere un'enormità di società da 15 impiegati giusti giusti, fiera dell'inefficienza, senza che con questo si sia data alcuna umanità al lavoratore.
Oppure bisognerebbe cambiare la mentalità di un intero sistema, ma siamo nell'utopia.
Unknown ha detto…
Amico, buon anno. Sono d'accordo con te e sai inoltre quanto mi auguri che il nostro mercato del lavoro cambi radicalmente! Tuttavia, pur magari avendo una qualche idea, non voglio entrare nello specifico perchè, con le mie scarse nozioni economiche, sicuramente finirei in un ginepraio dove saprei orientarmi ben poco. In questo caso a mio avviso il filosofo deve limitarsi ad offrire (come cerco di fare) un'ideale regolativo, per dirla con Kant, affiché non ci si dimentichi i valori coltivati negli ultimi anni e il senso di quei diritti acquisiti oggi tanto in discussione (seppur, ripeto, giustamente in discussione)!
sgubonius ha detto…
Il filosofo deve forse soprattutto saper porre le domande, e già questo è un ottimo successo. In questo caso il nucleo della domanda forse sarebbe "cosa rappresenta il lavoro per l'esistenza umana oggi". Ne possiamo dare una risposta più materalista (un mezzo di sostentamento) oppure una più spirituale (la sua realizzazione sociale). Io credo che sempre meno la realizzazione spirituale dovrebbe fondarsi sul lavoro, dato che sempre più il lavoro diventa alienante. Altrimenti in nome di una umanizzazione portiamo avanti invece una meccanizzazione assoluta (schiavitù al "posto" di lavoro).

Non è neanche tanto una questione economica, anzi è proprio cercare di non lasciare un fianco scoperto alla logica economica che per natura si ingloba tutto quanto. Non vogliamo favorire la fusione fra la dignità di una persona e il suo mezzo di sostentamento (o più generalmente il suo patrimonio), eppure in ultimo si afferma proprio questa logica.

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