Dall'anima al corpo vivente. La prospettiva post-metafisica di Hans Jonas
Pubblico un saggio di qualche anno fa sul pensiero di Hans Jonas che era stato originariamente ospitato presso il Giornale di filosofia della Religione.
di Andrea Fiamma
Introduzione
Il denso
saggio di Hans Jonas, Il problema della
vita e del corpo nella dottrina dell’essere[1],
mira a far luce sulle problematiche antropologiche della vita e della morte del
corpo inquadrandole nel contesto storico-filosofico; a tal fine, Jonas risale
agli albori della filosofia e presenta una breve storia dell'ontologia,
cercando di mettere ordine tra i tentativi di dare risposta alle enigmatiche
esperienze della vita e della morte del corpo. L'intento è propriamente quello
di «mostrare in che senso il problema della vita e con esso quello del corpo
debbano essere al centro dell’ontologia»[2].
Come si potrà presto intuire, la ricostruzione storico-filosofica di Jonas non
ha un intento meramente storiografico; essa, anzi, è fortemente segnata
dall'impostazione post-metafisica che Jonas aveva oramai sviluppato da qualche
anno e che vedrà poi una formulazione positiva nel celebre Principio
responsabilità. Essa prende le mosse sulla scia delle opere del suo maestro
Martin Heidegger e dei lavori sulla gnosi che hanno caratterizzato i suoi
esordi nell'ambiente accademico. Tale prospettiva si propone come una critica
alla metafisica e più precisamente consiste nella convinzione che ogni
ontologia si caratterizzi da una pretesa totalizzante sull'essere e sul mondo,
ma al contempo che ogni pretesa, proprio in quanto totalizzante, sia destinata
a restare incompiuta. I motivi di tale destino saranno ben tematizzati nel
corso dell'analisi della storia dell'ontologia intentata nel nostro saggio.
Infatti The Phenomenon of
Life appare (in inglese, a New York) nel 1966, quando cioè Jonas
aveva già consolidato la propria critica alla metafisica. Quel che tuttavia qui
importa ai fini della nostra ricerca è che l'impostazione metodologica con cui
Jonas affronta la storia dell'ontologia sia fortemente segnata da un'ipotesi di
fondo: che, cioè, ci sarà sempre un fatto, un evento, un estremo grido della
realtà positiva che contraddice, scardina e ribalta ogni possibile
concettualizzazione metafisica elaborata nel corso dei secoli.
La storia
dell'ontologia si può dunque descrivere come una storia di sconfitte, come una
serie di tentativi di costruire delle immagini totalizzanti del mondo,
destinate però a restare inattese. Tali Weltanschauungen non si
presentano mai sole, ma sono sempre parte di vere e proprie «ontologie
onnicomprensive»[3] che sono state sì «realizzate storicamente»[4],
ma che avevano sempre i caratteri di prospettive eterne sulla verità
dell'essere e del mondo. Come tali, cioè per un verso situate nella storia
dell'ontologia, ma per l'altro rivolte alla Verità eterna, esse avevano molto
da dire anche sulla vita e sulla morte del corpo; avevano da dire su Dio. Il loro
fallimento apre per Jonas l'era di una riflessione che sappia riconoscere
questo carattere costitutivamente totalizzante della metafisica, ma che, al
contempo, non voglia cancellarla. Difatti per Jonas tutte queste prospettive
sull'essere non sono da accantonare e dimenticare, ma esse, al contrario,
«hanno da insegnare»[5],
anche se «più su come porre che non su come risolvere il problema»[6]. In altri termini, la strutturale incapacità
delle metafisiche del passato di tratteggiare un'immagine del mondo unitaria
che resista dinanzi alle molteplici contraddizioni dell’esistente va apprezzata
e inclusa nella riflessione odierna sulla vita e sul corpo. Ciò non significa
ricadere in una pretesa di totalità, ma significa, al contrario, aprirsi verso
ogni possibile pensiero sull’Essere, verso ogni metafisica, ogni
concettualizzazione, sapendone però il limite strutturale: nel momento
in cui essa si pretende onnicomprensiva, ecco che cade dinanzi alla fattualità
e concretezza dell'evento. Di qui la necessità di studiare e comprendere i
passati tentativi di fare-metafisica e l'intenzione di affrontare il
tema mediante una breve storia dell'ontologia.
In merito
all'evento «enigmatico»[7] Jonas non ci dice molto; esso è, per così dire, lo
spontaneo rifiuto della realtà ad essere ap-presa (gegriffen)
entro una ontologia totalizzante, fatta di concetti e categorie. Tale evento
emerge nella sua fattualità, nel suo essere-reale, nel suo essere positivo; non
ha, invece, particolari caratteristiche formali, se non appunto il fatto di
essere radicalmente eterogeneo, inspiegabile e, appunto, enigmatico rispetto
alle categorie con cui l'ontologia interpreta la realtà. Ma non bisogna
immaginarsi tale esercizio immaginifico del realte come riservato ad una
cerchia di eletti e di filosofi; al contrario, l'ontologia ha forza e segna
un'era nella misura in cui le proprie
categorie penetrano nella mentalità comune e la formano, determinando standard
di “normalità”. Ciò si mostrerà più chiaramente nell'analisi della storia
dell'ontologia, ma possiamo qui anticiparne una tappa del percorso così da
esemplificare la nozione di “normalità”: per l'uomo antico abituato alla
prospettiva pan-vitalistica, dove tutto era vita, il fatto che il corpo sia
vita è la “normalità”; non è difficile capire come l'evento della morte – anzi,
il fatto del corpo morto che sta dinanzi a te e che ti crea disgusto o pena,
dolore o incredulità – apra una ferita insanabile non tanto in una prospettiva
antropologica (cioè non tanto nell'uomo singolo che soffre per la morte di un
suo caro), quanto, piuttosto, nell'ontologia stessa: se tutto è vita, l'enigma
della morte ci chiama a mettere in questione l'ontologia pan-vitalistica.
Ovvero: se c'è quel corpo che è morto dinanzi a me, allora non tutto è vita. Ed
ecco che cade una concezione ontologica, ponendo le basi per la costruzione di
un'altra.
Entro questo processo gnoseologico, il ruolo chiave è
attribuito all'evento che nega la logicità del mondo-della-vita, che
l'uomo riconosceva in tutto ciò che lo circondava, come un'armonia; ecco perché
quello della morte diviene un fatto realmente «enigmatico». Dinanzi a questo
enigma, l'uomo si meraviglia perché quell'evento ha squarciato la rete di
convinzioni e credenze su cui era basata la sua quotidianità – rete che
nasceva, appunto, da una prospettiva ontologica fortemente presente. L'evento
detona un'esplosione di pensiero: i solidi binari su cui correva saldamente il
treno del pan-vitalismo vengono distrutti; e il treno deraglia, in cerca di
un'altra coppia di binari più sicuri su cui correre. Ma tale meraviglia, come
insegnava Aristotele, non è però generica e vaga, infatti l'uomo si meraviglia
di qualcosa di definito e concreto che lo sconvolge davvero, che lo fa cade in
un'insicurezza dei propri fondamenti: l'uomo si meraviglia, cioè, della morte,
perché anzitutto e in primo luogo l’evento della morte è quello che contraddice
la logicità del mondo della vita che gli è quotidiano. Per tale motivo essa è
all'origine del filosofare e del ragionamento metafisico. Coerentemente con
tutta la tradizione antica, per Jonas la metafisica nasce davvero dal bisogno
di dare risposta all'enigma che ti ha sconvolto, che ti ha destato dal sonno
dell'immagine rassicurante del tutto-è-vita. Allora da questo punto di vista
tutta la storia della metafisica si delinea in una serie di tentativi
ermeneutici di comprendere l'evento contraddittorio entro una nuova visione. Si
può trovare qui un principio ermeneutico: la metafisica sembra svilupparsi come
una continua ridiscussione delle pre-comprensioni del mondo insite in
ogni epoca filosofica[8].
Ma – si è visto – tale tentativo ha per Jonas il peccato originale di essere
sempre accompagnato da una pretesa totalizzante che lo porta alla deriva, come
hanno mostrato le catastrofi del novecento.
Queste dinamiche diventeranno immediatamente più chiare
nella ridiscussione che intenta Jonas del cammino dell'ontologia, delle sue
aporie e dei tentativi di creare sempre nuove metafisiche. Entro questo
percorso jonasiano si stagliano come irrisolti i problemi della vita e del
corpo, che sono qui ricompresi come le caratteristiche aporetiche principali
della Storia della filosofia dell'Occidente, che ora proviamo a
ripercorrere brevemente.
i. Il monismo pan-vitalistico
«Secondo l’iniziale interpretazione umana dell’essere –
esordisce Jonas nel paragrafo dedicato alla storia dell'ontologia – ovunque vi
era vita ed essere corrispondeva a essere vivi»[9]
. Il «pan-vitalismo»[10],
ovvero l’idea che tutto-è-vita, sembra essere stata la prima dottrina
sull'essere, o comunque era tra la più antiche. Jonas sostiene che essa nasca
da un tipo di approccio all’esistenza che sarebbe stato anzitutto pratico,
quasi per nulla intellettuale. A muovere tale prospettiva era in primo luogo
l'immediata considerazione del fatto che la caratteristica fondamentale di ogni
esistenza sia appunto l'esser-vivi e che pertanto lo stesso esser-vivi
caratterizza l'essere al mondo in maniera essenziale. Sembrò inevitabile che
gli antichi concludessero che tutto quel che è al mondo dovesse esser vivo;
dunque, si disse, tutto-è-vita. Viceversa, la vita del tutto deve avere in sé
un’indiscutibile logicità di fondo, altrimenti essa non potrebbe permeare il
tutto.
Per questa ragione, appunta Jonas, l'uomo antico o l'uomo
pan-vitalista non poteva che percepire la vita come un qualcosa di logico e
“naturale”. Ma non solo: anche l’inanimato partecipava attivamente al sistema
della vita perché esso non veniva inteso quale semplice elemento materiale[11],
ma come un qualcosa che era funzionale al mondo della vita e che ad esso
apparteneva, seppur indirettamente. Allora tutto era vita e ciò che vita non
era rientrava nel tutto-è-vita come un elemento ad esso funzionale. C'era, in
altri termini, una complessiva armonia, che era logicamente sorretta dal fatto
stesso che tutto era finalizzato alla vita. Qui si arresta la lettura di Jonas.
Incidentalmente vogliamo inoltre notare che l’uomo antico si muoveva in un
mondo-universo in sé delimitato e fisicamente compreso in una particolare
prospettiva cosmologica. Essa raffigurava l'esistente come un complesso cosmo
vivente, dove la terra era al centro, e che appariva armonioso e pieno e che
era delimitato dagli astri.
Le brevi descrizioni jonasiane di un mondo concettuale
oramai scomparso diventano significative per comprendere come per un uomo
antico davvero tutto fosse permeato dal
principio vitale e come, per tale ragione, tutto avesse una sua intrinseca
sensatezza e un suo equilibrio. Ben si intende come, in un contesto di questo tipo,
la fattualità della morte divenga subito un qualcosa di enigmatico e
contraddittorio in relazione alla naturalità sistemica della vita. Ecco allora
che la morte si impone quale principale problema da risolvere:
Nella misura in cui la vita viene considerata come
primario stato delle cose, la morte si erge come sconvolgente mistero. Per
questo il problema della morte è forse il primo a meritare questo nome nella
storia del pensiero […]. Prima che iniziasse la meraviglia per il miracolo
della vita, ci si meravigliò della morte e di cosa potesse significare. Se la
vita è il naturale, la regola e il comprensibile, la morte, come sua apparente
negazione, è l’innaturale e incomprensibile, che non può essere veramente tale[12].
Dalla contraddizione che la morte
creava nella logicità del pan-vitalismo nacque dunque la metafisica. Essa però,
ci dice Jonas, non aveva uno statuto autonomo e scientifico; non era (ancora),
per così dire, una dottrina dell’Essere[13],
ma era semplicemente una risposta (a volte religiosa) al problema della morte.
Così la metafisica antica muove i primi passi allo stadio di proto-metafisica
come una particolare commistione di razionalità, mito e culto degli dei[14].
Tale atteggiamento “proto-filosofico” si esprime molto bene in maniera
simbolica nelle prime sepolture e nell’attenzione che gli uomini antichi
attribuivano alle tombe, «le quali riconoscono e al contempo negano la morte»[15].
La morte qui non è alternativa alla vita, ma, semplicemente, la morte come tale
non esiste: essa è parte della vita.
Il
culto tombale aveva inoltre un carattere iniziatico, poiché serviva ad avviare
il defunto verso un nuovo percorso di vita, che egli avrebbe incontrato dopo
aver varcato le porte dell'Ade. La morte non era che un passaggio verso
un'altra vita. Ecco che in forza della predominanza metafisica della vita, la
metafisica antica ereditava una predisposizione proto-metafisica a spiegare la
morte con il linguaggio della vita, interpretandola come una nuova nascita.
Quando poi il pan-vitalismo si strutturerà in una metafisica vera e propria,
mantenendo il carattere vitalistico, allora i filosofi potranno affermare in
modo più sistematico che – scrive Jonas – «l’essere è comprensibile, solo reale
in quanto vita»[16]. Ciò che in questa fase
sembra importante per il Nostro è sottolineare che tale forma proto-filosofica
di monismo vitalistico era stata a lungo una risposta apparentemente stabile al
problema dell'esistenza, poiché riusciva a coniugare l’aspetto teoretico (il
tutto-è-vita) a quello pratico (il culto tombale); eppure questa soluzione non
si rivelò soddisfacente per gli uomini dei secoli a venire poiché la concezione
pan-vitalistica venne a scontrarsi con la realtà fattuale: la definitiva e
irrimediabile esperienza della morte cominciàò a insinuare molti dubbi
nell’uomo monista, che, insaziabile di sapere, mise in discussione proprio
l'elemento su cui per secoli aveva fondato le proprie convinzioni più profonde:
il pan-vitalismo. In altri termini, ad un certo punto della Storia della
(proto-)filosofia l'uomo smette di credere che tutto-è-vita e volge
l'attenzione proprio verso il fatto reale della morte, nella sua dimensione più
concreta, reale, tangibile; perché è proprio la positività della morte a fare
scandalo. Si inizia così a percepire la morte non più in senso negativo, come
non-esistente o come non-vita, ma diventa presto un qualcosa di positivo, una
cosa vera, che sta dinanzi a noi e che è talmente reale che fa male, fa
soffrire. L'uomo man mano si accorge del corpo senza vita, dell’uomo morto, del
cadavere.
Da
questo momento il pensiero dell'uomo-morto entra nella riflessione
(proto-)filosofica. Ed è qui – fa notare Jonas – che l’uomo compì un passo
decisivo, perché fu in questa occasione che «l’ingenuo monismo si scisse nel
dualismo»[17] tra la vita dell'anima e la morte del corpo.
iii. Il dualismo vita-morte: l'orfismo e lo gnosticismo
É
stato appena mostrato che nella proto-metafisica si pone per la prima volta una
forma di dualismo ontologico tra la vita e la morte, che per Jonas
caratterizzerà tutta la storia della filosofia fino all'idealismo tedesco. Per
giunta la stessa storia del dualismo ontologico è lunga e complessa e rimanda a
diverse epoche e diverse tradizioni, ognuna delle quali ha cercato di pensare
la vita e la morte assumendole come punti di vista definitivi sull'Essere. Nel
frattempo era nata anche la filosofia e con esse l'arte dialettica; erano state
messe a fuoco da Platone le aporie del dualismo e man mano ridiscusse dalla
tradizione medievale.
Di
tutto questo, però, nel saggio che stiamo analizzando non c'è traccia. Jonas si
accontenta invece di tracciare rapidamente gli sviluppi del dualismo ontologico
ripercorrendone schematicamente le fasi principali. La prima tappa è costituita
dall’orfismo, che è situabile ancora in una fase proto-metafisica.
Soma-sema,
«il corpo-una tomba», così suonava [nell’orfismo, n.d.c] la prima risposta al
problema della morte che era ora divenuto, proprio come quello della vita, il
problema del rapporto fra due differenti entità, anima e corpo. […] La vita
abita come un’estranea nel corpo, il quale secondo la sua natura, come corpo in
verità è cadavere – apparentemente vivente per grazia dell’anima, durate la
breve presenza di questa – e solo nella vera morte, abbandonato dall’ospite
estranea, esso giunge alla sua verità originaria, come l’anima che lo abbandona
giunge alla propria[18].
Jonas mostra come nonostante
nell’orfismo il dualismo sia ancora molto legato ad elementi mitici – il mito
di Orfeo –, tipici di una mentalità ancora immersa nel pan-vitalismo antico,
già lì si intravedano i semi filosofici degli sviluppi futuri, che condurranno
ad elaborazioni sempre più raffinate del dualismo. Tra esse, l'orfismo si mette
in evidenza come un primo punto di svolta perché gli orfici compiono
un'operazione particolare: polarizzano lo scandalo del cadavere e dell morte
nella fattualità del corpo, che diventa un qualcosa di distinto dalla vita;
esso diventa soma-sema, non più fonte di vita; nell’anima si concentra
invece la dimensione spirituale e divina[19].
Il dualismo anima-corpo prende forma proprio grazie all'entificazione operata
dagli orfici sul problema della morte; esso, lungi dall'esser negato come
accadeva nel pan-vitalismo, acquisisce ora una fattualità vera, una concretezza
che dovrebbe poter spiegare il dolore della morte, la sua cruda realtà. Il
dramma, però, è diventato ora la vita del corpo. Infatti poiché l'anima e il
corpo sono l'entificazione dei due principi della vita e del corpo, allora gli
orfici ritengono che anima e corpo siano entrambi autonomi, come si confà a dei
principi; ciò però significa che essi naturalmente non solo sono indipendenti
ma, anzi, si contrappongono. Per cui ciò che invece è innaturale e
contraddittorio è la vita del corpo. Anima e corpo sono infatti costretti a
“stare insieme” a causa di ragioni cosmologiche e, finché l'uomo vive, sono
costretti a restare legati l'uno l'altro, ma in maniera del tutto innaturale e
non spontanea. Quindi la morte
dell'uomo vivente o del corpo che vive diviene il modo attraverso il quale la
sua anima e il suo corpo si scindono per tornare alla loro forma propria e
rispettare la loro tendenza naturale. Solo in questo modo per l'orfismo l'anima
e il corpo possono liberarsi tra loro e affermarsi finalmente nella loro
positività. Salta subito agli occhi come tale prospettiva già ribalti il
monismo pan-vitalistico nella misura in essa l’enigma diventa ora la vita
dell'uomo vivente. L'orfismo ha fatto sì che il vivente dall'essere
identificato come il fatto naturale sia ora al contrario pensato come il
problema da risolvere, come l’evento paradossale che fa problema alla scissione
dualista tra anima e corpo. L'analisi di Jonas si può inoltre completare
aggiungendo che questa idea non è rimasta isolata al mondo orfico ma che è man
mano trasmessa alla nascente filosofia e dalla tradizione orfico-pitagorica sia
passata a Platone, Aristotele, agli stoici e al neoplatonismo dei primi secoli,
caratterizzandone l'approccio con la morte dell'uomo vivente in un senso del
tutto paradossale: la morte è così intesa come la naturale e, talvolta, sospirata
meta della vita dell'uomo in questo mondo; e infatti soltanto grazie alla morte
dell'uomo vivente l'anima avrebbe potuto liberarsi ed essere vita fiorente; e
così anche il corpo, che avrebbe potuto lasciare l'anima e tornare materia
bruta. Non a caso nel platonismo e in alcune teorie della tardo-antichità, la
filosofia stessa era interpretata come un esercizio spirituale da praticare nel
corso della propria vita, grazie a cui l’uomo poteva «imparare a morire»[20].
A
cavallo tra il II e III secolo, si sviluppa quella corrente
filosofico-religiosa che per Jonas rappresenta la seconda tappa di questo
ideale cammino verso i dualismi della filosofia, ovvero lo gnosticismo[21].
Hans Jonas, che dedicò studi intensi allo gnosticismo, attribuisce a
questa dottrina la caratteristica, per così dire, “epocale”, di aver esteso la
considerazione della paradossalità della vita vissuta all’universo intero.
Gli gnostici, infatti, a differenza degli orfici, hanno proiettato
sull’universo quella stessa contraddittorietà del rapporto dualistico
anima-corpo che gli orfici avevano individuato nella vita dell'uomo su questa
terra. Lo gnostico pensa che non solo l'uomo sia strutturato secondo i due
principi anima-vita e corpo-morte, ma che lo sia anche l'universo, che sarebbe costituito
anch'esso da due principi, ovvero quello dell'anima (spirito) e quello del
corpo (materia). Ma c'è di più, perché gli gnostici compiono un passo avanti
anche in un altro senso: essi radicalizzano il già acuto dualismo orfico
al punto tale che possono pensare lo spirito non più soltanto come distinto
dalla materia, ma anche come da essa indipendente anche in questa vita. E
soprattutto che questa indipendenza possa giovare allo spirito, che non avrebbe
più bisogno di un corpo per situarsi nel mondo:
Dalla percezione, faticosamente acquisita
[dall'orfismo, n.d.c.], che la materia può esistere senza spirito, il dualismo
dedusse senza percepirlo il contrario, per cui anche lo spirito potrebbe
esistere senza materia[22].
L’incompatibilità
dei due principi porta gli gnostici a radicalizzare le posizioni e così sia il
principio dello spirito che quello della materia possono d'ora in avanti
pretendere di essere i soli principi ad agire.
In tal modo gli gnostici danno vita
a due nuovi monismi alternativi ed escludentesi, rendendo vana alla
filosofia successiva ogni possibilità di conciliare l'anima con il corpo. E fu
subito un «aut aut»[23]: «Ne consegue quindi –
scrive Jonas – che la situazione
post-dualistica non è una, bensì vi sono due fondamentali possibilità del
monismo, che vengono rappresentate dal materialismo moderno e dall’idealismo
moderno»[24]. Seguendo la linea di pensiero jonasiana si potrebbe
dunque affermare che è lo gnosticismo a fondare propriamente la modernità. Da
evidenziare è inoltre anche la raffinata lettura di queste due correnti che
attraversano e caratterizzano il tempo moderno: esse non compongono un
dualismo, come poteva essere nell'antichità, ma sono entrambe pretendenti a
divenire i nuovi monismi. Esse sono due nuove forme di monismi, che si sono
formati per gemmazione dall'originario monismo pan-vitalistico attraverso
alcune tappe, che Jonas indibvidua soprattutto nelle posizioni orfiche e
gnostiche (le quali a loro volta sono presenti come fiumi carsici – e non a caso! – in tutta la filosofia
antica fino al Rinascimento). Questi monismi però non si combattono faccia a
faccia, ma si comportano in maniera diversa: cercano di inglobare l'opposta
prospettiva ipostatizzandola, cioè rendendola funzionale al proprio monismo:
così l’idealismo scinde la realtà in «coscienza» e «fenomeno»; mentre il
materialismo in «sostanza» ed «epifenomeno». Di esse ci occuperemo ora in
maniera più approfondita.
iii. Il fallimento dell’idealismo moderno e la
preferenza per il materialismo
Nel capitolo sui nuovi monismi
dell'età moderna, Jonas analizza in maniera separata l'idealismo e il
materialismo, evitando però di seguire un ordine cronologico, bensì una
sequenza dettata dalla logica della breve ricostruzione della storia della
filosofia intentata sin qui. In merito all’idealismo moderno, Jonas esordisce
facendo notare come esso erediti dalla tradizione antica l’idea della
coscienza, cioè di una realtà inestesa e interiore a cui ricondurre tutto
l’essere in senso monistico. Ma anch'esso dovrà fare presto i conti con le
proprie contraddizioni interne e dunque con la concretezza del fatto vivo e
reale che va a decretarne l'inconsistenza delle sue pretese monistiche. In
questo caso sembra ripetersi quanto già descritto per il pan-vitalismo, ma ad
un livello teoretico ben diverso: l'in-comprensibile dell'idealismo è, ancora
una volta, realtà fattuale del corpo, il “positivo” – parafrasando Schelling –,
che primariamente è costituito dalla realtà estesa del corpo che muore. Ma,
appunto, a differenza del panvitalismo, l'idealismo gioca questa partita su un
piano differente; infatti la sua peculiarità – che per Jonas è, tra l'altro,
uno dei motivi del suo fallimento – consiste nella capacità di interpretare
l’elemento esteso del corpo che muore come «una
tra le “idee” esterne (cogitationes)
della coscienza»[25].
A differenza del monismo “ingenuo”
degli antichi, ora i nuovi monismi denotano la capacità a comprendere le
proprie contraddizioni ipostatizzandole a realtà spirituali inferiori, nel caso
dell'idealismo, o materiali nel caso del materialismo. Per cui dal punto di
vista dell'idealismo moderno davvero tutto è una realtà spirituale e «il corpo fa parte, come campo della sensazione e
dell’attività volitiva, dell’interiorità stessa»[26]. Ecco che, secondo tale prospettiva, quel corpo morto che
giace dinanzi a te è soltanto un mero fenomeno. Così, nella fase
conclusiva del saggio, Jonas non ha dubbi nel giudicare anche l’idealismo come
già fallito perché esso elude strutturalmente il problema concreto del corpo e
della sua morte, riducendolo a “pensiero della morte”:
[L’idealismo, n.d.c.] può sempre
interpretare dal punto di vista della pura coscienza, per quanto artificiale
sia, il corpo vivente alla pari di tutti gli altri corpi come «idea» esterna o «fenomeno» nel suo orizzonte oggettivo, negando così la corporeità
propria: con ciò esso si risparmia il problema sia della vita che della morte[27].
Ma non basta: Jonas individua
altre contraddizioni interne all'idealismo, come ad esempio:
1)
Il rapporto con la
cosa in sé – pensando il mondo come fenomeno della volontà interiore,
l’idealismo si rivela incapace di dare realtà al mondo, cioè di pensarlo
autonomamente dal soggetto[28].
2)
La scienza – se il
mondo è fenomeno allora la scienza si riduce al modello di Hume, «ovvero a sequenze di contenuti esterni e indifferenti l’uno
rispetto all’altro, riguardo i quali non potrebbe nemmeno sorgere il sospetto
di una connessione interna al di là delle loro relazioni spazio-temporali, e
neanche la minima giustificazione per postularla. La causalità diviene qui una
finzione su base psicologica, a cui è stato sottratto il proprio terreno»[29].
Fallito
l'idealismo, non resta che rivolgersi all'altro monismo possibile: il
materialismo. Jonas però non sembra neanche troppo convinto della positività
del materialismo e anziché introdurlo come aveva fatto con le altre tre
filosofie, anticipa il lettore muovendo subito un rilievo critico. Qui Jonas
avanza una delle idee più notevoli e geniali del saggio, cioè la concezione
secondo cui l’idealismo sia in realtà un “epifenomeno” del materialismo, poiché
– argomenta Jonas – anch'esso si muove sulla base di leggi materialistiche.
Infatti, come nel materialismo, anche per l'idealismo «la realtà deve divenire una serie di punti giustapposti
nello spazio e successivi nel tempo»[30]. Dal punto di vista idealistico, la realtà stessa è
costituita da un insieme di punti, ma – a differenza del materialismo – punti
“fenomenici”, “incorporei”, eppure nella medesima logica meccanica del loro
dispiegarsi come reale sono tanto simili a «punti
dell’estensività, che necessariamente sono tanto esteriori fra loro quanto lo
sono alla coscienza e quindi possono venire sottoposti solo a regole di ordine
di successione esterna»[31]. Con questo parallelo tra i due, Jonas introduce il
materialismo moderno – o, in maniera più appropriata, “pan-meccanicismo”;
perché più che di materialismo, è di meccanicismo che si tratta. É il
meccanicismo il vero secondo monismo della modernità ed è il risultato ultimo
della riduzione di tutto il reale alle qualità estese (materiali), soggette
alla misurazione, ma, appunto, ad una misurazione quantitativa e meccanica:
L’universo tremendamente ingrandito della
moderna cosmologia è un campo di masse inanimate e di forza senza meta, i cui
processi si svolgono a seconda della loro distribuzione quantitativa nello
spazio in base a leggi di invarianza[32].
Le
conseguenze filosofiche a cui è pervenuta questa nuova forma di monismo
“quantitativo” appaiono a Jonas come pienamente antitetiche al pan-vitalismo
degli antichi, poiché secondo tale un'impostazione filosofica il mondo è
meccanico e ha il suo fondamento ultimo nella non-vita, nell'atomo, che è
l'unico elemento realmente conoscibile[33];
perciò «oggi il cadavere è fra le condizioni del corpo quella più comprensibile»[34]. La prospettiva del pan-vitalismo antico viene così
ribaltata totalmente. Ma anche questa forma di materialismo meccanicista ha in
sé una contraddizione, un elemento che scardina la logicità interna alla
visione del mondo: la vita. Ribaltando
il tavolo del pan-vitalismo antico, il materialismo meccanicista moderno si
trova nella sua medesima situazione, cioè a riscontrare che nel mondo c'è un
evento, un qualcosa reale che è incomprensibile secondo il pan-meccanicismo.
Tuttavia il processo metodologico dell'irridubibilità del reale ad una logicità
filosofica pan-vitalista o pan-meccanicista, che Jonas ha individuato come
chiave di tutto il pensiero metafisico, potrebbe agire in questo caso per
l’ultima volta: il problema della vita sembrerebbe stavolta esser finalmente
posto in maniera definitiva poiché per il materialismo «l’organismo in quanto
cosa corporea è un caso dell’esteso, quindi una parte di “mondo”, allora non
può essere niente di essenzialmente diverso dal restante mondo, cioè
dall’essere universale del mondo[35]». Inoltre,
rispetto all’enorme sconfinamento del
monismo iniziale, che vedeva la vita coestentiva con l’essere, la distinzione
critica dovette iniziare con la scoperta della materia inanimata in genere e
proseguire poi ampliando la dimensione dell’inanimato a scapito della vita,
finché all’apice del successo l’inanimato divenne a sua volta coestentivo con
l’essere oggettivo. Come espressione di questa situazione teoretica
postdualistica è chiaramente il materialismo rispetto all’idealismo la variante
più interessante e più seria della moderna ontologia. Infatti esso fra la
totalità dei suoi oggetti – i corpi in generale – fa realmente incontrare anche
quello vivente, e poiché è tenuto a sottomettere anche quest’ultimo ai suoi
principi, si espone alla vera prova ontologica e alla possibilità di fallire[36].
Tra le due forme di
post-dualismo, Jonas preferisce il materialismo non perché esso sia riuscito a
dare risposte definitive al problema della vita e della morte, ma perché ha ora
la possibilità di porre il problema in modo da non ricadere più nella
contraddizione.
Il
materialismo, se rettamente inteso, cioè in senso non-quantitativo, fa sì che
la vita sia pensata come la vita di un “corpo che vive” o “corpo vivente”. Se
il materialismo non si farà sedurre dal tentativo di onnicomprensività del
meccanicismo allora potrà provare a pensare l'anima e il corpo all'interno
della stessa prospettiva filosofica e non più come alternative – ricucendo così
lo strappo creato dalle posizioni gnostiche. Un buon materialismo potrà dunque
pensare per la prima volta il corpo non più come soma-sema, ma, per così
dire, come un corpo che ha la vita come suo elemento strutturale: «Il corpo vivente è l’archetipo del concreto
e, nella misura in cui è il mio corpo,
nella sua immediatezza di interiorità ed esteriorità insieme, è in generale l’unico concreto dell’esperienza completamente dato»[37].
Non a caso il materialismo del novecento ha saputo porre premesse filosofiche
cogenti e aperte a partire dalle quali la stessa fisica moderna sta ora
lavorando in una prospettiva post-atomista e post-meccanicista.
Conclusioni
Nel
saggio Il problema della vita e del corpo nella dottrina dell'Essere,
Hans Jonas ha mostrato come la concezione metafisica del dualismo anima-corpo, benché sia nata con
l'obiettivo di correggere il monismo pan-vitalista, sia poi ricaduta in due
nuovi monismi, anche se “post-dualistici”. A differenza del monismo dei primi
filosofi, l'idealismo e il materialismo non negano ingenuamente il problema della
morte, ma tentano di affrontarlo a viso aperto. I loro punti di vista sono sì
opposti e alternativi, ma strutturalmente sono entrambi figli di una concezione
meccanicista e di una metafisica dualista. E in quanto prodotti dal dualismo
anima-corpo, entrambe le visioni del mondo presentano i medesimi difetti
strutturali che hanno accompagnato le altre concezioni metafisiche verso il
tramonto. Difatti in entrambi si ripresenterà presto lo stesso problema
metodologico segnalato da Jonas per il pan-vitalismo e per il dualismo, cioè la
pretesa di comprendere l'evento in uno schema onnicomprensivo e
intellettualistico. Esso è la vera costante metodologica dell'avanzamento
dell'ontologia: da una parte la visione globale del mondo nelle sue diverse
forme di pan-vitalismo, dualismo, e post-dualismo, dall’altra l’evento, il
fatto, che sembra sfuggire ad ogni tentativo di comprensione unitaria
dell'essere e ad ogni possibile costruzione metafisica; è proprio
l'irriducibilità dell'evento ad una forma intellettualistica che ha fatto sì
che la modernità dualista sia superata e siano state aperte le nuove
prospettive dell'idealismo e del materialismo.
D’altro canto è la stessa bi-unità che
diviene ostacolo per ognuno dei due sistemi alternativi, diramatisi dal
dualismo, non appena essi, come non possono fare altrimenti, si ampliano ad
ontologie totali. È proprio la doppia unità stessa che li costringe a questo
ampliamento e quindi a questo sconfinamento e che non permette loro di trovare
rifugio nell’apparente neutralità di meri ambiti parziali o aspetti parziali.
Il corpo vivente e che può morire, che ha il mondo e appartiene come parte
anch’esso al mondo, che può essere sentito e sente, la cui forma esterna è
organismo e causalità e la cui forma interna è essere sé e finalità: è il
memento dell’ancora irrisolto interrogativo dell’ontologia su cosa sia
l’essere, e deve essere il canone dei futuri tentativi di soluzione che si
approssimano, andando oltre le loro astrazioni particolari, al fondamento
nascosto della loro unità e che al di là delle alternative devono quindi di
nuovo perseguire un monismo integrale a un livello superiore[38].
Tra le
due, secondo Jonas il materialismo ha avuto il merito di porre le
premesse per una nuova speculazione filosofica rivolta verso la datità e non
verso la coerenza intellettuale del sistema. Eppure anche nel materialismo c'è
una via possibile per uscire dalla spirale di distruzione-formulazione delle
nuove visioni del mondo: è la meraviglia della manifestazione di un unico
organismo nella forma del corpo vivente. Se la filosofia del secolo
venturo saprà cogliere appieno l'occasione di riflettere sul corpo che vive,
allora probabilmente si potrà pensare ad una forma filosofica che aspiri ad una
concezione duratura; qualora invece dovesse cedere alla tentazione di risolvere
il fatto della vita o della morte nell’universale visione onnicomprensiva, cioè
di ridurre la vita alle leggi della non-vita[39]
(e/o viceversa), allora il materialismo sarebbe da considerare alla pari
dell’idealismo: un’ipotesi da scartare.
[3] Ibid.
[4] Ibid.
[5] Ibid.
[6] Ibid.
[7] Ivi, p. 16. Il termine verrà riproposto più volte nel
testo, assumendo un significato chiave.
[8] 8 «Il circolo di
parti e tutto non si risolve dissolvendosi nella comprensione raggiunta, ma
piuttosto proprio in tale comprensione si realizza nel modo più pieno», HANS GEORG GADAMER, Wahrheit
und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Mohr
Verlag, Tübingen 1960; tr. it. di G. VATTIMO,
Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000, p. 343; Nonostante non
sia specificato da Jonas, in tutto il saggio risuona l’approccio metodologico
tipico dell’ermeneutica di Gadamer.
[10] Ivi, p. 16.
[11] «la maggior parte di quello che riconosciamo come
inanimato è intrecciato così intimamente con la dinamica della vita che sembra
partecipare della sua natura» Ivi, p. 15.
[12] Ivi, p 16.
[13] Solitamente si definisce la
metafisica come dottrina a partire dalla rielaborazione che ne offre Aristotele
nella Metafisica, quando nel primo libro cerca di sistematizzare le metafisiche
precedenti e, di fatto, crea una storia della filosofia e con essa una
metafisica dallo statuto autonomo.
[14] Sull’origine della filosofia e sul
ruolo della mitologia e del culto di Apollo e Dioniso cfr. G. COLLI, La
nascita della filosofia, Adelphi , Milano 1975.
[16] Ivi, p. 17.
[17] Ivi, p.21.
[18] Ibidem.
[19] Nell’antichità l’anima era definita “pneuma”, spirito divino, “soffio”.
[20] «È dunque vero che coloro i quali
filosofano dirittamente si esercitano a morire», PLATONE,
Fedone, Rusconi, Rimini 1999. Sul
tema cfr. PIERRE HADOT, Exercices spirituels et philosophie antique, Albin Michel, Paris 2002; tr. it.
di A. I. DAVIDSON (cur.), Esercizi spirituali e filosofia antica,
Einaudi, Torino 2005.
[21] Dal termine greco gnósis, «conoscenza». Hans Jonas studiò
a fondo la corrente gnostica nei primi anni della sua attività. Da segnalare HANS JONAS, Gnosis und spätantiker Geist, Vandenhoeck
& Ruprecht, Göttingen, I Vol. 1934; II Vol. 1954.
[23] Ibid. Jonas dimostra, inoltre, come
sia logicamente impossibile qualsiasi conciliazione tra materialismo e
idealismo: Ivi, p. 26.
[24] Ivi, p.24.
[25] Ivi, p.27.
[26] Ibidem.
[27] Ivi, p. 28.
[28] Basti pensare, anche
schematicamente, alla «Dottrina della scienza” di Fichte, in cui l’Io
innanzitutto pone sé stesso per intuizione intellettuale, poi pone in sé, il
non-Io e da entrambi pone il mondo. Il soggetto non solo è l’unica realtà
realmente certa ma fonda il mondo.
[30] Ibid.
[31] Ibid.
[32] Ivi, p. 18.
[33] «Il privo di vita è divenuto
conoscibile» Ibid.
[34] Ivi, p. 20.
[35] Ivi, p. 19.
[36] Ivi, p. 28.
[37] Ivi, p. 32-33.
[38] Ivi, p. 27.
[39] Per Jonas questa tendenza è
tipica di alcune totalizzanti scienze moderne, come la biologia.
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