Moltiplicatio sermonum perutilis est

Questa sera vorrei discutere brevemente una certa tendenza della filosofia moderna e seguente che spinge a credere in una possibile verità "scientifica" in merito ai discorsi della filosofia; per molti filosofi moderni e contemporanei, la filosofia è un ragionamento che deve mirare alla precisione, anzitutto formale. Ad esempio, un certo valore di Verità esprime, rigidamente, se una definizione data sia adeguata o meno ad un qualcosa da definire e se, con le precide operazioni logiche, quella definizione possa o meno implicare un qualcos'altro per un altro ente o viceversa. Da questa pur breve introduzione si intende facilmente come l'obiettivo polemico, invero già altre volte bersagliato in queste pagine, sia una certa idea, presente soprattutto nella moderna filosofia analitica, secondo la quale la filosofia possa divenire una questione di implicazioni e definizioni, di X e di sequenti, di giochi pseudo-matematici e di formulette male interpretate. Dunque a nostro avviso ciò di cui quella filosofia pretende di occuparsi - ovvero, anzitutto, della Verità o meno di una data espressione - appare illusorio, benchè le forme linguistiche da essa usate facciano affidamento sempre più ad uno stile "formale" e ad un linguaggio che appare il più condiviso possibile. Non solo, sul progetto di un linguaggio "puramente" formale, tante grandi menti del passato hanno speso importanti energie filosofiche con risultati più o meno convincenti.

Il nostro punto di vista parte da delle premesse del tutto opposte, che non vogliamo di certo nascondere, ma che, anzi, diverranno il punto di partenza per un abbozzo di opposizione. A nostro avviso quella forma "pura" di linguaggio, a cui quella branchia della filosofia aspira, non si dà in questo mondo; difatti per quanto si possa tentare di stabilire dei nessi causali tra i rispettivi sensi, tra le parole o i simboli usati e le realtà denotate, la nostra idea è che quel qual-cosa rimarrà sempre impossibile a dir-si. In questo senso, allora, non possiamo fare affidamento su alcuna scala di verità e nessun valore veritativo sul mondo risulta così disponibile alla sfera del linguaggio. Riteniamo infatti che ogni nostro discorso galleggi tra la nostra illusione di intendere un qualcosa di denotato o una realtà sulla quale crediamo di parlare e, contemporaneamente, quella nostra attività calcolante, meccanica e algebrica, che si attiva nel momento in cui parliamo: si tratta del ragionamento, che consiste nell'associare e dissociare realtà simili o distinte e che, probabilmente, non ha nulla di più stupefacente che non quel  gretto attivarsi elettrico di neuroni che rispondono a segnali di chiamata e risposta, come la moderna psicologia, a partire dai modelli di Weber e Fechner, ha ampliamente descritto.

Se allora il ragionare non è altro che un calcolare e un legare, ogni nostro dire non avrà mai la pretesa di legarsi ad un denotate reale, ma sarà sempre impigliato nella rete dove è nato e cresciuto; in sostanza, il definire è un atto di ragione, che come tale lì nasce e lì rimane, senza avere la possibilità di uscire fuori, se non per l'illusione sempre più viva di saper dire un qualcosa del mondo. Il linguaggio e, con esso, la ragione, da cui il linguaggio nasce e per il quale esso vive, sono espressioni di un'identico piano, di un'identica attività strumentale che ha permesso all'uomo di saper, appunto, costruirsi una realtà nella quale vivere, muoversi, respirare e ragionare; una realtà costruiita che così, con quelle stesse capacità calcolanti, ha potuto maneggiare e strumentalizzare, nel senso etimologico di "rendere strumento". Allora nel dire noi facciamo riferimento a categorie del linguaggio che abbiamo costruito e che, seppur nate in riferimento alla realtà, non hanno con essa alcun legame preciso: non sanno e non possono indicare con verità e precisione ciò che credono di poter denotare. Nel corso dei secoli ci siamo costruiti allora dei linguaggi e dei modi di espressione ma la cosa è rimasta sempre velata in sè stessa; vergine bianca e brezza rarefatta del deserto, essa per noi è sempre stata intangibile, inarrivabile, inavvicinabile nella misura in cui abbiamo cercato di toccarla con le nostre categorie linguistiche. Tutt'altro! Ci siamo addirittura illusi di risalire agli esemplari delle cose. Eppure è evidente: le nostre categorie linguistiche non sono altro che nostre costruzioni, incapaci di giungere al vero perchè umilmente meccaniche, strumenti di visione e di senso ma mai davvero capaci della realazione veritativa con l'esterno - mai in grado davvero di poter significare con precisione il denotato.

Agli esemplari si dirige la filosofia prima, che con essi è realmente teo-logia, mentre alle nostre parole, alla loro correttezza e funzionalità, al meccanismo calcolante che vi è sotteso badano la logica e la filosofia del linguaggio. Purificare il discorso non è allora compito della filosofia tout court, ma soltando della filosofia del linguaggio, come, come tale, fornisce gli strumenti ma rimane condannata: come l'uomo condannato ad una vita impura dalla nascita nel peccato originare, anche il linguaggio è, nel suon di metafora, condannato ad un dire impreciso e incapace di saltare sul piano del vero. E per vero non si intende la doxa, ma il vero vero, la precisione, la misura adeguatissima della realtà. Ad essa la mente non giunge, l'occhio non vede, l'orecchio non sente. Ma questo cosa significa? Dobbiamo tralasciare ogni possibile discorso su Dio e affidarci al silenzio della ragione? No, al contrario. Edotti della nostra ignoranza, edotti dell'incapacità ontologia di poter attingere al mistero delle cose grazie alla nostra ragione, non possiamo che tentare di avvicinarci, di congetturare, di predicare per aenigmi, seppur umili frutti della ragione. Allora non obbedite al silenzio dei mistici, ma, al contrario, sapere aude! Solo se la mente è diretta a Dio, se è edotta della propria incapacità, se si muove in una aenigmatica scientiae, se è sempre coniectura, allora lo sforzo della ragione paga: sarà capace di indicare, seppure non di dire, di far pregustare seppur non di assaporare, di annusare seppur non di sentire.

Commenti

sgubonius ha detto…
A questo punto sono costretto a domandarti... che ne è di quel "vero io" che secondo il neoplatonismo e il misticismo sta in fondo all'anima?
Scrivevo nel finale: Solo se la mente è diretta a Dio, se è edotta della propria incapacità, se si muove in una aenigmatica scientiae, se è sempre coniectura, allora lo sforzo della ragione paga: sarà capace di indicare, seppure non di dire, di far pregustare seppur non di assaporare, di annusare seppur non di sentire. Ebbene, nell'incapacità della ragione, quel "vero io" o quel fondo dell'anima è la porta (ostium) per l'accesso al vero. Ma qui apriamo un altro capitolo.
:)
Ernesto Graziani ha detto…
Non accetto e anzi considero profondamente antifilosofica la tua critica alla filosofia analitica del linguaggio, accusata (1) di occuparsi di un tema “illusorio”, ovvero niente di meno che la “Verità o meno di una data espressione”, (2) di voler stabilire una “forma "pura" di linguaggio” che “non si dà in questo mondo” (perché “la nostra idea è che quel qual-cosa rimarrà sempre impossibile a dir-si”), riducendo così la filosofia stessa a “questione di implicazioni e definizioni, di X e di sequenti, di giochi pseudo-matematici e di formulette male interpretate”. Mi sembrano che siano questi i punti fondamentali della tua critica agli analitici. In ordine. (1) La verità di una espressione sarebbe un tema illusorio. Se uno si costruisce – anzi, no: propriamente non costruisce, non formula, non elabora, ma semplicemente postula un concetto di verità (e di conoscenza), partendo dal fatto che la nostra verità e la nostra conoscenza – filosofica e non – sono strutturalmente limitate, e opponendo a queste quella sua visione ideale non meglio specificata (e non specificabile in maniera determinata, per le solite ragioni suddette, e da cui tra l'altro l'uso ed abuso del linguaggio metaforico), allora definire illusorio quel quel concetto di verità è un puro atto di impudenza. La nostra verità fenomenica, linguisticamente strutturata, umana è l'unica di cui disponiamo: teniamocela stretta. 2) L'interesse per il tema semantico della verità rientra in un interesse più comprensivo per il linguaggio e per la logica. Questi sono intesi non soltanto come oggetti degni di attenzione in se stessi, come dai tempi di Platone, ma anche come strumenti per l'argomentazione filosofica.
Ernesto Graziani ha detto…
Per il linguaggio la cosa è ovvia: argomentiamo parlando; per la logica non è più così ovvio: per alcuni filosofastri le leggi della logica non solo non sono sufficienti a produrre buone argomentazioni filosofiche (cosa su cui nessun filosofo sano di mente ha dubbi), ma non sarebbero neppure necessarie. Contro ciò non ho nulla da obiettare – cosa si ha da obiettare alla poesia? Ora, dato che il linguaggio è cosí fondamentale nell'argomentazione, è quantomeno sensato l'intento di formulare un linguaggio simbolico, in parte condiviso con logica e matematica, volto a rendere il meno equivoci ed il più chiari possibili le definizioni ed i passaggi argomentativi. Questo non significa assolutamente pretendere di ridurre la filosofia ad attività definitoria e deduttiva. Questa idea sarebbe un'illusione, questa davvero lo sarebbe, ma nessuno, fortunatamente, dopo i tentativi dello Hegel “logico”, se ne fa sostenitore. Argomentare efficaciemente non significa necessariamente argomentare deduttivamente. Sono fondamentali, oltre alle argomentazioni non deduttive (la cui forza puo essere anch'essa valutata secondo criteri formali), il riferimento costante al dato empirico, agli apporti delle scienze, e, non meno importante, al senso comune. “Cosa esattamente è denotato da questo nome? Cosa significa?”. Ci si interroga sulla definizione. E questo è, a mio avviso, filosoficamente doveroso. Altrimenti si corre il rischio di perdersi nelle parole e di non saper più di che cosa si parla. La questione, veramente fondamentale, della definizione è parte dell'attenzione che, in generale, deve essere dedicata al modo in cui il linguaggio rappresenta, denota la realtà, al modo in cui cerca di esprimerne la struttura.
Ernesto Graziani ha detto…
L'unico modo per fare ontologia in modo serio è quello di prestare costantemente attenzione al linguaggio, da un lato, interrogandosi sulla sua struttura e tentando di scoprire se esso non ci dica – non per caso – qualcosa sulla struttura della realtà (“l'ente si DICE in moti modi”), dall'altro, controllandolo affinché non prendiamo problemi meramente verbali per problemi ontologici: a questo scopo assai proficuo si rivela l'uso del linguaggio formale o ideografico, il quale non è affatto, come tu cerchi invece di presentarlo, una specie di scimmiottamento del linguaggio matematico: anche storicamente l'ideografia nasce con un pensatore, Frege, che è al tempo stesso logico, matematico e filosofo (prevalentemente del linguaggio). (E per quanto concerne le “formulette male intepretate”: è un giudizio analitico: la qualità della intepretazione di ciò che in questo linguaggio è presentato è da attribuire appunto all'interprete). Questo, certo, non vuol dire che l'uso di questo linguaggio formale sia sempre utile, ma in molti casi è un ausilio non indifferente. Il problema autentico del metodo analitico è soltanto questo: che esso costringe a riflettere sul serio. Così, chi lo segue, rinuncia alle metafore brillanti usate come surrogati di argomenti, preferendo argomenti autentici. Lo stile di scrittura analitico tende a promuovere e ad assecondare lo spirito critico del lettore, non tenta di sottrarsi alla critica del lettore suggestionandolo con il tono altisonante di formule vaghe, dotate di tono ma non di senso, per dirla con Frege, o addirittura incomprensibili – infatti, per dirla con Nietzsche “Quando non si capisce si diventa solenni”, o no?. Qui faccio mio il motto “La clarté est la bonne foi des philosophes” (Vauvenargues, tramite Schopenhauer).
Ciao Ernesto, grazie per il tuo commento e la tua verve filosofica. Immaginavo che ti saresti piombato sull'argomento e devo dire che un po' me ne compiaccio: attirare nel discorso persone che hanno punti di vista lontanissimi dal mio è proprio il senso della "pubblicazione" on-line - che altrimenti potrei anche evitare: non sono più rassicuranti i "diari" nel cassetto?

Cercherò di essere breve. Dunque, spero che non ti offenderai se ti dico che il modo in cui hai trattato questo piccolo spunto è proprio quel modo che critico maggiormente. Voglio dire: non avrò la capacità stilistica di Hegel nè saprò evocare immagini come Rilke o Dante, ma mi piacerebbe che il testo sia fatto lasciar parlare; ovvero, mi piacerebbe che lo spunto - perchè si tratta solo di un vago spunto buttato giù di getto - sia fatto risuonare (scusa l'anndazzo heideggeriano) invece che compresso all'interno di questa gabbia serrata, dove la luce della verità, a mio avviso, non fa capolino. Il punto è che l'accusa che mi fai di non intendere appieno le varie sfumature della filosofia analitica e di non rendere merito alla ricchezza di studi fatti può essere anche accettata, ma a patto di non cadere nella stessa rete in cui cadi te quando scrivi:
"La nostra verità fenomenica, linguisticamente strutturata, umana è l'unica di cui disponiamo: teniamocela stretta."
L'errore di fondo è non comprendere come la sfida sia cercare un tipo di conoscenza che non sia derivata da una verità "fenomenica". Ne avevamo parlato. Ciò che più mi interessa e che tu (con buona parte della fil.an.) escludi apriori è che sia possibile un'altro tipo di conoscenza che faccia leva non sulla ragione ma su un altro strumento (Aristotele), ossia l'anima. Tu credi che questo sia un salto. Possibile, forse è un salto nel buio. Ma a cosa con-duce la luce della ragione se non alla propria deriva, se non al buio dell'oblio? E allora lì inizia quella vertigine della ragione, che ci spinge a navigare verso tutt'altri lidi - dalla metafora capirai che le tue ultime righe in cui citi lo Hegel della fenomenologia nella polemica con Schelling, al contrario di quanto possa pensare, mi suonano come complimento*.
* Ernesto mi ha inviato una versione più lunga del commento, che si chiudeva così:
E comunque, in definitiva: vuoi dire che il linguaggio è condannato all'incapacità di cogliere la verità? (4) Abbandonata “una certa tendenza della filosofia moderna e seguente che spinge a credere in una possibile verità "scientifica" in merito ai discorsi della filosofia”, “dobbiamo tralasciare ogni possibile discorso su Dio e affidarci al silenzio della ragione? No, al contrario. Edotti della nostra ignoranza, edotti dell'incapacità ontologia di poter attingere al mistero delle cose grazie alla nostra ragione, non possiamo che tentare di avvicinarci, di congetturare, di predicare per aenigmi, seppur umili frutti della ragione.” Ecco, alla fine, il salto dalla “realtà” a “Dio”, cioé dalla incognita x alla incognita X, ovvero il salto dall'incapacità di conoscere la realtà in sé, una realtà che ci si dà sempre e solo come fenomeno, alla liceità del discorso metaforico su un ente di cui non disponiamo neppure di un fenomeno. Ancora una volta, ti chiedo di farmi capire cosa intedi dire, perché, a mio avviso, quello che tu proponi, se l'ho ben capito, è, filosoficamente parlando, una mostruosità. Cioè, prima tenti di svilire uno sforzo intellettuale serissimo, imputandogli l'incapacità di assolvere ad un compito, inassolvibile, e che comunque non si propone – ma che secondo te dovrebbe porsi – e poi, su questa base, sull'abbattimento della pretesa veritativa del conoscere filosofico (e scientifico), tenti di legittimare un discorso teologico per metafore ed allusioni sensoriali su un ente totalmente indisponibile, dicendo, in sostanza, che bisogna accontentarsi di immaginarsi metaforicamente le cose, e a questo punto, possiamo fare anche un bel ritratto di dio. È questo che intendi fare? O leggo male tra le righe? Se e questo che intendi fare, allora, per caratterizzare la tua visione della filosofia, mi concedo l'uso di una metafora, presa in prestito da un autore a me non troppo caro, ma particolarmente calzante per caso presente: la tua visione della filosofia è proprio come “una notte in cui tutte le vacche sono nere”.
Laura ha detto…
mi sto occupando del problema dei truthmakers nel presentismo e tra le tante soluzioni c'è un certo Alan R.Rhoda, te lo cito così vedi se può interessarti, secondo il quale la teoria presentista del tempo dovrebbe accompagnarsi al teismo. I truthmakers, dato che è difficile trovarli nella realtà presente, allora ce li fornisce dio. Come vedi la fantasia non manca neanche agli analitici
sgubonius ha detto…
Tu dici "nell'incapacità della ragione, quel "vero io" o quel fondo dell'anima è la porta (ostium) per l'accesso al vero. Ma qui apriamo un altro capitolo."

Ma così non si rischia di ricadere di nuovo in un rigiramento della frittata in cui si sa di non sapere e si trova una verità di riserva? Questa storia del vero Io in ultima analisi è comunque l'opposto di una moltiplicatio sermonum, è sempre l'ossessione per l'Uno!