Platone, il legislatore deve cercare di ingenerare negli stati la vera intelligenza e di bandirne la stolta ignoranza.
ATEN. Diciamo allora, mentre facciamo la strada che ancora ci resta per la nostra conversazione, come sia stata la più grande ignoranza allora a distruggere quella potenza, ignoranza che anche ora provoca questa stessa conseguenza, cosicché il legislatore, se quanto dico è vero, deve cercare di ingenerare negli stati quanto più può la vera intelligenza e di bandirne quanto più può la stolta [689a] ignoranza.
CLIN. E' chiaro.
ATEN. Quale è allora l'ignoranza che noi potremmo chiamare giustamente la più grande? Vedete se quello che dico andrà bene anche a voi, io infatti dico che è del genere di questa.
CLIN. Quale?
ATEN. Quella per cui quando qualcuno ritiene che qualche cosa sia bella o buona non l'ama ma l'odia, e ciò che ritiene cattivo ed ingiusto ama e desidera. Questo disaccordo di piacere e, dolore con il giudizio della ragione io dico che è l'estrema ignoranza e la più grande perché è nella parte più grande dell'anima; infatti quella sua parte di cui è [b] proprio soffrire e godere è in essa ciò che il popolo e la folla sono nello stato. Quando dunque l'anima contraddice alle conoscenze, alle opinioni, al discorso della ragione, a ciò che per natura è a capo, questa condizione io dico stolta ignoranza', e così nello stato quando la plebe non obbedisce ai governanti e alle leggi è lo stesso e così in un uomo quando i bei discorsi che sono nella sua anima non fanno nulla di più che esserci e avviene tutto il contrario di quello ch'essi dicono, ed io affermo che sono proprio [c] tutte queste ignoranze le più gravi, nello stato e in ciascuno dei cittadini, e non quella degli umili artigiani; se è vero che mi intendete, ospiti, in ciò che dico.
CLIN. Capiamo, caro, e ne conveniamo.
ATEN. Questo dunque resti stabilito così come è stato detto e deciso: che ai cittadini ignoranti di questa ignoranza non si debba attribuire nessun potere, si debba biasimarli come ignoranti anche se siano bravi ragionatori e ben esercitati in ogni [d] cavillo e in tutti i mezzi che per loro natura danno agilità alla mente, e gli altri cittadini che sono l'opposto di questi si debba chiamarli sapienti', anche se non sappiano, come è il proverbio, né leggere e scrivere né nuotare; a loro si deve dare il potere perché sono intelligenti. Come potrebbe infatti esserci, amici, senza armonia anche il più tenue aspetto di intelligenza? Non è possibile; invece la più bella e la più grande di tali armonie giustissimamente si può dire la più grande sapienza, di cui è partecipe chi vive secondo ragione, e chi la perde diventa distruttore della famiglia e in nessun modo salvatore della [e] patria, ma, ignorante di tali cose, sempre si rivelerà un suo dissolutore. Questo, come dicemmo prima, resti stabilito così come è stato enunciato ora.
CLIN. Sta bene.
(da Platone, Le leggi, III, 689 a - b)
CLIN. E' chiaro.
ATEN. Quale è allora l'ignoranza che noi potremmo chiamare giustamente la più grande? Vedete se quello che dico andrà bene anche a voi, io infatti dico che è del genere di questa.
CLIN. Quale?
ATEN. Quella per cui quando qualcuno ritiene che qualche cosa sia bella o buona non l'ama ma l'odia, e ciò che ritiene cattivo ed ingiusto ama e desidera. Questo disaccordo di piacere e, dolore con il giudizio della ragione io dico che è l'estrema ignoranza e la più grande perché è nella parte più grande dell'anima; infatti quella sua parte di cui è [b] proprio soffrire e godere è in essa ciò che il popolo e la folla sono nello stato. Quando dunque l'anima contraddice alle conoscenze, alle opinioni, al discorso della ragione, a ciò che per natura è a capo, questa condizione io dico stolta ignoranza', e così nello stato quando la plebe non obbedisce ai governanti e alle leggi è lo stesso e così in un uomo quando i bei discorsi che sono nella sua anima non fanno nulla di più che esserci e avviene tutto il contrario di quello ch'essi dicono, ed io affermo che sono proprio [c] tutte queste ignoranze le più gravi, nello stato e in ciascuno dei cittadini, e non quella degli umili artigiani; se è vero che mi intendete, ospiti, in ciò che dico.
CLIN. Capiamo, caro, e ne conveniamo.
ATEN. Questo dunque resti stabilito così come è stato detto e deciso: che ai cittadini ignoranti di questa ignoranza non si debba attribuire nessun potere, si debba biasimarli come ignoranti anche se siano bravi ragionatori e ben esercitati in ogni [d] cavillo e in tutti i mezzi che per loro natura danno agilità alla mente, e gli altri cittadini che sono l'opposto di questi si debba chiamarli sapienti', anche se non sappiano, come è il proverbio, né leggere e scrivere né nuotare; a loro si deve dare il potere perché sono intelligenti. Come potrebbe infatti esserci, amici, senza armonia anche il più tenue aspetto di intelligenza? Non è possibile; invece la più bella e la più grande di tali armonie giustissimamente si può dire la più grande sapienza, di cui è partecipe chi vive secondo ragione, e chi la perde diventa distruttore della famiglia e in nessun modo salvatore della [e] patria, ma, ignorante di tali cose, sempre si rivelerà un suo dissolutore. Questo, come dicemmo prima, resti stabilito così come è stato enunciato ora.
CLIN. Sta bene.
(da Platone, Le leggi, III, 689 a - b)
Commenti