La città pagana
Meditando sul monumentale De Civitate Dei, gli spunti che possiamo trarre sono innumerevoli e spaziano su una straordinaria rosa di tematiche e di livelli concettuali. Non a caso Agostino rimane a mio avviso il più importante punto di confronto ogni qualvolta si abbia intenzione di avviare un qualsiasi lavoro di ricerca sulla filosofia e più in generale sulla cultura d'Occidente. Così, per motivi analoghi, mi sono imbattuto ieri in un passo che ho trovato davvero denso e che vorrei qui riproporvi integralmente approfittando della traduzione italiana presente in rete sul sito http://www.augustinus.it. Si tratta dell'annosa questione del rapporto tra il cristiano e il potere, tra il denaro come mera mediazione per lo svolgersi della vita civile tra gli uomini e ciò che ad esso spesso soggiace, ovvero quell'amore di sè su cui gli uomini hanno costruito la Civitas pagana. Nel secondo libro, al capitolo 20, appare un vero e proprio "manifesto della città pagana", così come intitola Luigi Alici, importante studioso della filosofia agostiniana che ha curato la traduzione italiana per la Bompiani.
Ciò che emerge da queste righe è impressionante: per Agostino quel che segna la degenerazione della città non è tanto l'aver ceduto al lusso e al denaro, ma - scrive - "che i re si preoccupino solo della felicità dei sudditi e non della loro onestà"; ovvero, del fatto che la città dei romani, seguendo il culto dei falsi dèi, non aveva curato il legame tra l'etica e lo stato. Uno stato cristiano è allora uno stato in cui giustizia ed etica sono indistinte. D'altronde questo guadagno sembra essere non solo dello stato cristiano ma costituisce un proprium del buon governo: non a caso, questo legame tra l'etica e la giusizia era chiaro anche a Cicerone o ad altri importanti re e generali romani, di cui Agostino celebra ampliamente le imprese - a partire da A. Regolo. Curioso - dicevo - è il fatto che qualche anno più tardi si sosterrà proprio l'inverso, perchè a caratterizzare lo stato moderno è proprio quello slegare l'etica e lo stato che Agostino tanto criticava. Ecco: le conseguenze di questo importante cambio di prospettiva rendono il De Civitate Dei non solo un'opera di straordinario talento letterario e filosofico e l'apice di una passata tradizione cristiana bensì, forse inaspettatamente, una lente importante per filtrare il mondo odierno e l'attuale concetto dello Stato e della politica.
Ma simili adoratori e amatori di questi dèi, che si vantano anche di imitare nei delitti e azioni infami, non si preoccupano affatto che la società sia corrotta e depravata. Basta che si regga, dicono, basta che prosperi colma di ricchezze, gloriosa delle vittorie ovvero, che è preferibile, tranquilla nella pace. E a noi che ce ne importa?, dicono. Anzi ci riguarda piuttosto se aumentano sempre le ricchezze che sopperiscono agli sperperi continui e per cui il potente può asservirsi i deboli. I poveri si inchinino ai ricchi per avere un pane e per godere della loro protezione in una supina inoperosità; i ricchi si approfittino dei poveri per le clientele e in ossequio al proprio orgoglio. I cittadini acclamino non coloro che curano i loro interessi ma coloro che favoriscono i piaceri. Non si comandino cose difficili, non sia proibita la disonestà. I governanti non badino se i sudditi sono buoni ma se sono soggetti. Le province obbediscano ai governanti non come a difensori della moralità ma come a dominatori dello Stato e garanti dei godimenti e non li onorino con sincerità, ma li temano da servi sleali. Si noti nelle leggi piuttosto il danno che si apporta alla vigna altrui che alla propria vita morale. Sia condotto in giudizio soltanto chi ha infastidito o danneggiato la roba d'altri, la casa, la salute o un terzo non consenziente, ma per il resto si faccia pure dei suoi, con i suoi o con altri consenzienti ciò che piace. Ci siano in abbondanza pubbliche prostitute o per tutti coloro che ne vogliono usare ma principalmente per quelli che non si possono permettere di averne delle proprie. Si costruiscano case spaziose e sontuose, si tengano spesso splendidi banchetti, in cui, secondo il piacere e le possibilità di ciascuno, di giorno e di notte si scherzi, si beva, si vomiti, si marcisca. Strepitino da ogni parte i ballabili, i teatri ribollano di grida di gioia malsana e di ogni tipo di piacere crudele e depravante. Sia considerato pubblico nemico colui al quale questo benessere non va a genio (da: http://www.augustinus.it/italiano/cdd/index2.htm)
Ciò che emerge da queste righe è impressionante: per Agostino quel che segna la degenerazione della città non è tanto l'aver ceduto al lusso e al denaro, ma - scrive - "che i re si preoccupino solo della felicità dei sudditi e non della loro onestà"; ovvero, del fatto che la città dei romani, seguendo il culto dei falsi dèi, non aveva curato il legame tra l'etica e lo stato. Uno stato cristiano è allora uno stato in cui giustizia ed etica sono indistinte. D'altronde questo guadagno sembra essere non solo dello stato cristiano ma costituisce un proprium del buon governo: non a caso, questo legame tra l'etica e la giusizia era chiaro anche a Cicerone o ad altri importanti re e generali romani, di cui Agostino celebra ampliamente le imprese - a partire da A. Regolo. Curioso - dicevo - è il fatto che qualche anno più tardi si sosterrà proprio l'inverso, perchè a caratterizzare lo stato moderno è proprio quello slegare l'etica e lo stato che Agostino tanto criticava. Ecco: le conseguenze di questo importante cambio di prospettiva rendono il De Civitate Dei non solo un'opera di straordinario talento letterario e filosofico e l'apice di una passata tradizione cristiana bensì, forse inaspettatamente, una lente importante per filtrare il mondo odierno e l'attuale concetto dello Stato e della politica.
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