G. Gentile, Se la filosofia antica è immersa nella natura, il cristianesimo lo è nella libertà
Noi oggi vediamo
chiaramente quello che Dante e i filosofi del suo tempo scorgevano
pure sicuramente per quanto in confuso: che cioè la stessa posizione
propria di tutta la filosofia pagana non consentiva la debita
adorazione di Dio, il riconoscimento dell’identità di natura tra
Dio adorato e l’uomo che l’adora, ossia della sua spiritualità.
Quella filosofia si sforza tutta di concepire intellettualisticamente
la realtà, come oggetto assoluto della conoscenza umana; e la
realtà, quale si rappresenta all’intelletto che la presuppone come
suo oggetto, concepita come molteplicità atomica o come cosmo
intelligibile, come estensione o come pensiero, rimane sempre qualche
cosa di chiuso in sé, che l’uomo non può riconoscere senza
sentirsene fuori; che è come dire, senza svalutare sé stesso, e
annientare idealmente nella realtà assoluta la propria personalità,
la propria libertà, la coscienza della propria creatività.
Se il
mondo è tutto quello che dev’essere quando noi prendiamo a
conoscerlo, questa vita che comincia a realizzarsi mercé l’attività
del nostro spirito, non può non apparire illusoria, poiché rimane
esclusa dalla totalità dell’essere concepibile; e non può quindi
non svanire nel nulla. Donde quel travaglio disperato d’Amore, in
cui Platone simboleggia non pur la vita del pensiero umano aspirante
all’immortalità delle idee, ma della natura universale, tutta
corrente, immensa fiumana, dal monte a una foce irraggiungibile. Da
Parmenide, per cui la realtà è quell’Unità, in cui il pensiero
deve immedesimarsi per essere, a Plotino che ripone l’apice supremo
della vita spirituale nell’estasi in cui lo spirito deve uscir da
sé per assorbirsi nell’Uno, il savio gentile s’affisa per otto
secoli, anzi per tutto lo sviluppo della civiltà pagana, in una
realtà esterna che è tutto, e non contiene in sé la stessa
sapienza del savio; non ha posto per quella realtà, entro la quale
l’uomo vive pensando e volendo. Il suo Dio è semplice natura.
Quindi il
pessimismo profondo radicale che è in Platone, e che non può
ritrovarsi in Leopardi. Per restituire la speranza all’uomo che
naturalmente desidera, occorre che la posizione dell’uomo di fronte
al mondo muti, e sia diverso perciò il suo atteggiamento verso Dio,
principio assoluto dell’essere che costituisce il mondo. La
conoscenza intellettuale deve cedere il luogo all’amore: a
quell’atto spirituale che non presuppone, ma esso fa essere il
termine reale, a cui s’indirizza; lo fa essere, s’intende,
nell’ambito stesso della vita spirituale, nella coscienza. Occorre
cioè che la realtà a cui ci si rivolge non sia questa natura, a cui
noi pure naturalmente apparteniamo; ma quello spirito, in cui a noi
non è dato penetrare se non in virtù, di un’attività che non è
istinto, né, comunque, legge naturale, ma libertà: l’opposto, la
negazione della natura. La divina realtà dev’essere intesa dunque
come Spirito: spirito in sé (monotriade), spirito rispetto all’uomo
(mediatore). Ecco una nuova sapienza, ecco, come dice Dante di
Beatrice, la «loda di Dio vera» (Inf. II, 103): ecco quella «che
lume fia tra il vero e l’intelletto» (Purg. VI, 45).
da Giovanni Gentile, La filosofia di Dante Alighieri, III
Commenti