La cultura è davvero un peso per la politica e l'economia d'Italia?

La notizia della chiusura immediata della Biblioteca dell'Istituto per gli studi filosofici di Napoli è piombata di recente come un mattone sulla testa di molti studiosi della materia. Il risveglio forse un po' tardivo di filosofi, professori di filosofia, studenti e cultori del ramo sta dando vita in questi giorni a una serie di petizioni (a cui ho partecipato anch'io, firmando con convinzione) e appelli in difesa della Biblioteca che, si spera, potranno riuscire a far scartare i libri già riposti in un capannone del napoletano per riconsegnarli alla luce degli studi. Piange la musa Minerva a vedere quel filmato-testimonianza dell'avv. Marotta che passeggia tra una serie di libri filosofici imballati e destinati all'oscurità e all'inutilizzo polveroso. Nel dare l'in-bocca-al-lupo all'avvocato e a tutti i sostenitori del recupero, avanziamo però qualche riflessione sulla concezione della cultura in Italia e sulla sua spendibilità sul mercato internazionale; perché poi, alla fine, si tratta di questo: in Italia la cultura è considerata come un qualcosa che non fa PIL, che, cioé, non fa girare denaro, non è spendibile, ma, al contrario, persino ne assorbe in una quantità insostenibile per un periodo di crisi. In molti sono convinti, difatti, che il finanziamento per la cultura sia una sorta di elemosina o un qualcosa che al massimo possa servire al trastullarsi di ricchi borghesi, i quali, in barba alle difficoltà della massa, nel fine settimana desiderano divertere dai loro impegni dei giorni feriali. Una soluzione di lettura immediata e invero ricorrente di tale quadro politico è quella secondo cui il mondo umano sarebbe diviso in due categorie fondamentali: i) gli amanti del bello, che antepongono l'humanitas ad ogni altro elemento umano, e ii) gli amanti dell'utile immediato, di solito espressione del mondo moderno e della peggiore concezione del potere personale; questi secondi, poi, nelle rappresentazioni fornite dalla controparte intellettuale sarebbero dei compulsivi egoici, capaci solo di apprezzare ciò che risponde ai bisogni della loro pancia o, peggio, del loro basso ventre. La questione che cercheremo di affrontare in questa breve riflessione è quindi la seguente: è possibile un altro modo di intendere la cultura in Italia? E, se si, è necessario soggiacere a quella distinzione manichea appena tratteggiata, oppure forse la cultura può divenire interessante anche per il sistema capitalistico? E' corretto pensare ad una spendibilità della cultura nel mercato oppure essa è destinata a rappresentare una opposizione radicale contro le logiche egoiche dei bisogni, come solitamente viene argomentato dagli "uomini di cultura" italici?

Proviamo a rispondere evitando di astrarre eccessivamente dalla situazione attuale e, anzi, provando proprio a partire dalle politiche che per un verso hanno caratterizzato il governo italiano e per l'altro gli uomini di cultura; perché - in effetti - ciò che è sempre sotto osservazione (e dunque accusa) è l'operato del governo, il quale, storicamente, che sia stato di centrodestra o di centrosinistra, ha sempre apportato un progressivo taglio ai fondi destinati alle Università, alle biblioteche, ai luoghi di cultura e alle borse di studio per gli studenti di area umanistica. A tal proposito è difatti possibile che la maggioranza degli uomini che hanno animato la cultura politica italiana siano inscrivibili al medesimo modello bipolare di cui si tratteggiava prima, ma di segno opposto: molti politici, infatti, vedono il mondo diviso in ciò-che-è-utile e ciò-che-non-porta-pane-a-casa (l'humanitas). Tenuto conto che non soltanto i politici ma una buona maggioranza di italiani assume l'atteggiamneto descritto, vorrei avanzare l'ipotesi  che anche gli intellettuali italiani siedono sulla medesima visione del mondo, seppur da parti contrapposte. Questo, tuttavia, mi pare controproducente per entrambi. In altri termini in questi anni anche gli uomini di cultura hanno soggiaciuto a tale schema, presentandosi sempre come coloro che, per definizione, non potevano produrre utile in denaro ma che, anzi, avrebbero offerto prodotti spirituali ad una società incapace di apprezzarli, cucciata com'è sulla conta degli introiti provenienti da televisioni e spettacolini. Da parte sua, in definitiva, l'intellettuale rifiuta il sistema capitalistico ma, al contempo, dovendo svolgere una professione (magari come docente, oppure nei teatri o come impiegato in biblioteche e musei) chiede che lo Stato sovvenzioni questa sua attività umanistica. Chi, difatti, potrà mai essere interessato a pagarmi per l'esercizio della cultura umanistica se non quello Stato che avrebbe presente il bene comune dei cittadini e che dovrebbe saper guardare oltre gli egoismi dei singoli? Così facendo l'intellettuale che rifiuta il capitalismo si inserisce in una logica di mercato chiedendo, appunto, del denaro in cambio di un servizio che egli offre, per così dire, all'anima dei fruitori.

Per questa ragione - e cioè per il fatto stesso che l'intellettuale agisce in un mondo globalizzato e partecipa al capitalismo, seppur alla maniera del rifiuto dello stesso - verrebbe da domandarsi se la sua strategia sia quella che, per così dire, paga di più, cioè che gli assicura maggiore successo, a patto, ovviamente, si non snaturale la prorpia vocazione umanistica. Ricapitolando, in discussione è l'atteggiamento dell'intellettuale che per un verso rifiuta il mercato e per l'altro chiede, anche lecitamente, sovvenzioni dallo Stato affinché il servizio che egli offre al consumatore possa sopravvivere entro il conflitto connaturato alla spartizione del denaro. Questo atteggiamento (e dunque tale concezione politica) ha fatto sì che lo Stato rispondesse sempre alle esigenze dell'intellettuale cercando di proteggere il servizio da lui offerto elargendo denaro pubblico e sussidi in una certa quantità. Per questa ragione ritengo che all'attuale sistema di finanziamento della cultura (e in una certa misura anche dell'Università) abbiano concorso tanto quella concezione dell'intellettuale e del mondo come diviso tra umanisti/mercantilisti, tanto la risposta inintelligente di una classe politica che, quando ha potuto, ha sovvenzionato senza pensare. Va da sé che, se così funziona, e cioé se per l'umanista esistono solo possibilità di guadagno nel settore pubblico e se, ancora, la cultura si regge meramente su contributi statali, allora da parte sua il politico non potrà che concepire la cultura come quel rubinetto aperto che chiede e non dà mai al benessere economico della nazione. In momenti di crisi come questo, è ovvio che il primo pensiero del governo sia quello di chiudere i rubinetti gettando il panico in un ambiente che non ha altra fonte di sostentamento se non l'aiuto dello Stato e che, appunto, diversamente cade risucchiato nella competizione (e cioé non riesce più a pagare gli affitti, le bollette, gli stipendi e così via).

Per l'insieme di queste situazioni, ciò che è qui in discussione è se possa esistere un altro modello di attività intellettuale e soprattutto se la politica possa guidare la cultura italiana verso fonti di guadagno in un modo possibilmente a lei conveniente - e che cioé procurerebbe ricchezza anzitutto alla cultura stessa. E' possibile, in altri termini, uscire dal modello bipolare umanista/mercantilista e dalla logica della cultura come di ciò che è spendibile solo nel pubblico e per il pubblico, pensando un modello alternativo di guadagno e un atteggiamento diverso che permetta alla cultura di stare nel mercato in un modo più vantaggioso - dato che, appunto, nel mercato la cultura c'è e si pone nei termini della sua negazione? Al tema converebbe uno studio approfondito e la ricerca di una serie di riscontri possibili, ma in questa sede mi limiterò a dare qualche indicazione per uscire da quella concezione bipolare - che a mio avviso penalizza anzitutto la cultura - e promuovere diverse prospettive di integrazione della cultura nel capitalismo globalizzato. Come spesso accade, a mio avviso un buon metro ed esempio giunge dalle ére passate, quando l'Europa non era il vecchio continente e deteneva piuttosto il primato culturale, scientifico, economico e politico; ma non solo: quel mondo pre-moderno era anche pre-statale, appunto. La nostra Italia, per ironia della sorte, è piena di esempi: basta passeggiare a Roma o a Firenze, oppure scendere alla Napoli regale o nella Palermo di Giacomo da Lentini, dove nacque la lingua italiana. Le gradi opere degli artisti e dei letterati, ad esempio, sono venute alla luce grazie ai finanziamenti della Chiesa, dei grandi mecenati e delle Opere di libera associazione (molto interessante in tal senso è la mostra dedicata alla costruzione del Duomo di Milano presente al Meeting di Comunione e Liberazione del 2012). Una possibile confutazione potrebbe recitare: in passato il mondo era fondato su dei valori diversi da quelli moderni e soprattutto su un sistema diverso dall'attuale capitalismo. Tutto vero: il passato però dimostra quantomeno che un privato può essere interessato a spendere nella cultura. E questo, in qualche modo, già ci permette di uscire dal dualismo di cui si parlava.

In che termini un privato può investire nella cultura italiana? Nei termini in cui inizia a concepire un "ritorno" di immagine. Un esempio? Il restauro del Colosseo tramite la sponsorizzazione dei fratelli Della Valle. Dopotutto in passato non erano forse i grandi magnati a promuovere la cultura? A quale portafogli attribuire la grandezza della Firenze rinascimentale se non alla munificenza degli scaltri Medici, banchieri e usurai senza scrupoli? O la Venezia seicentesca, divisa tra i banchieri ebrei? E il Vaticano, così adornato dal potere economico ecclesiastico? Probabilmente se gli esponenti principali della cultura italica contemporanea aprissero le loro opere alla logica dei finanziamenti privati e del marketing si assisterebbe a diversa litania - quanto si rivelò opportuna (benché fortemente impopolare e poco "intellettuale") la scelta del sindaco Cacciari di coprire i teloni di restauro veneziano con le pubblicità della Coca-Cola! Questa scelta - è chiaro - comporterebbe la necessità di scendere a patti, di non pretendere un finanziamento ad occhi chiusi. E questa concezione diversa creerebbe anche una differente sensibilità da parte della politica, che vedrebbe nella cultura un elemento di traino per l'economia stessa; la concepirebbe come un settore ricco e fiorente - anzi, vogliamo sostenere in chiusura di articolo, la dovrebbe percepire come l'unico settore dove l'Italia avrebbe qualcosa di importante da proporre dinanzi alla crisi attuale. La politica non ancora comprende comprendesse che soltanto una scelta di questo tipo potrebbe fornire all'Italia la possibilità di guidare l'espansione di un settore dove è leader naturale nel mondo. La logica del capitale globalizzato, difatti, premia o la massima qualità o la massima quantità (the best and the chippers). Dal punto di vista della qualità, di certo l'Italia non può pretendere di eccellere nell'industria, poiché nella metalmeccanica, ad esempio, non può competere con le grandi aziende dei tedeschi; nell'innovazione tecnologica, quale futuro dopo aver perso il treno nei confornti di USA e Giappone? Impossibile sarebbe poi fabbricare tutto a basso costo: la Cina non avrebbe rivali (e non solo, si guardi anche i trasferimenti delle fabbriche Fiat in Montenegro). Probabilmente - paradosso! - l'unica realtà davvero spendibile sul mercato sarebbe la nostra cultura, il nostro patrimonio artistico e storico. Non è un caso se americani, giapponesi, tedeschi e tutti gli altri riempiono da anni le nostre piazze: la più grande miopia della classe politica attuale è non capire che o puntiamo su una nostra originalità ed eccellenza nel mondo (la nostra storia) oppure non c'è futuro. E, forse, la strada verso il futuro l'abbiamo sempre avuta sotto il naso.

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