La singolare attualità di un intellettuale liberale che divenne ministro in Camicia nera: Giovanni Gentile

di Emanuele Severino
da Il Corriere della Sera, 11/09/2006

Va sfatato un pregiudizio carico di conseguenze: che di Gentile possano interessare oggi i rapporti col fascismo, conclusisi con la tragica uccisione del filosofo, ma non la sua filosofia, acqua passata che avrebbe poco da dirci. La filosofia di Gentile non è né acqua né passata. Ciò non vuol dire che in essa abiti la verità. È anzi una delle forme più radicali e coerenti dell'errare. Ma quanto profondo e decisivo può essere l'errare! Per molti motivi il pensiero di Gentile è sconcertante. Egli scrive spesso in modo apparentemente piano, a volte retorico. Si crede allora di capire. Dietro quelle pagine c'è però sempre una delle concezioni filosofiche più ardue e rigorose, che egli tenta di rendere comprensibile a un pubblico più ampio. Ma c' è ben altro. Gentile aderisce al fascismo. Eppure nessun antifascismo è più antifascista della filosofia gentiliana. Ancora: Gentile intende il proprio pensiero come l'espressione più pura del vero cristianesimo; eppure, figura di spicco del fascismo, si oppone come nessun altro al Concordato tra Stato italiano e Chiesa cattolica, fortemente anche se ambiguamente voluto da Mussolini. Non si tratta di contraddizioni. Nessun dubbio che Gentile si presenti come un liberale. Prende però le distanze dai liberali come Missiroli, De Ruggiero, Gobetti, Mosca. Prima che liberale è filosofo. Una filosofia, la sua, che, con una potenza quasi unica nel pensiero degli ultimi due secoli, mostra la necessità di rifiutare l' intera tradizione culturale, politica, religiosa dell'Occidente. Il suo è come l' arco di Ulisse. Se si è Proci non lo si sa nemmeno tendere - e lo si appende al muro. In una conferenza del 1923 Gentile dice che il suo liberalismo «non è la dottrina che nega, ma quella che afferma rigorosamente lo Stato come realtà etica. La quale è, essa stessa, da realizzare, e si realizza realizzando la libertà, che è come dire l' umanità di ogni uomo (...). Questo Stato liberale non assorbe in sé e non annulla l'individuo, come teme il pavido liberale dell'individualismo», o il «vecchio liberalismo, che conosceva soltanto lo Stato opposto all'individuo», e ognuno dei due pensava, dell'altro, mors tua vita mea. Lo «Stato etico non è esterno all'individuo; anzi è l'essenza stessa della sua individualità»: volontà «senza limiti né ostacoli di cui non abbia a trionfare». Qui e ovunque, Gentile dice che, sì, lo Stato è realtà, ma realtà che è «essa stessa, da realizzare». Queste espressioni significano: la realtà vera non è quella ferma, morta, ma quella storica che diviene, e che appunto perciò è «da realizzare»; e non è nemmeno quella presupposta al di là della nostra esperienza e del nostro pensiero, in un altro mondo, ma è questa di cui facciamo esperienza e che è anzi la nostra stessa essenza e la nostra «libertà», perché libera da ciò che è già realizzato. Queste non sono semplici asseverazioni, «idee» più o meno arbitrarie di un «filosofo»; ma sono la conseguenza inevitabile del modo in cui l'Occidente ha incominciato a manifestarsi sulla terra. Non è possibile mostrare qui, in concreto, tale inevitabilità - a cui per altro si riferiscono spesso i miei interventi sul Corriere -, come non sarebbe possibile mostrare qui le ragioni della teoria della relatività. Accontentandoci di uno schema, potremmo dire così: il divenire - nascita e morte - della realtà visibile è stato sempre, per l'intera civiltà occidentale, l'evidenza originaria e innegabile. Ma se esistesse, esterna a essa, una realtà immutabile e divina che contenesse già tutto quel che diviene, allora divenire e storia, nascita e morte, sarebbero mere apparenze. Ma apparenze non possono essere, essendo esse, appunto, l'evidenza originaria.

Dunque quella realtà esterna e immutabile e i valori e costumi a essa connessi sono impossibili. Questo, lo schema della frana gigantesca da cui la tradizione occidentale è travolta. Oggi si ignora l'inevitabilità di questo discorso, ma che l'unica realtà sia quella che nasce e muore è la convinzione dominante del mondo occidentale. Da quel passo di Gentile risulta chiaro che l'etica dello «Stato etico» non è un decalogo fermo e morto, ma è appunto realtà da realizzare, divenire, «rivoluzione» continua. Se qualcosa è divenire, tutto è divenire; e solo il divenire è eterno e dunque è il vero Dio, il Dio cristiano che non resta nell'alto dei cieli, ma si fa uomo, nasce e muore e dice di esser venuto a portare la spada. Dio, Stato, essenza vera dell'individuo sono lo stesso. Gentile lo chiama «spirito». Genesi e struttura della società, scritta da un Gentile che ha aderito alla repubblica di Salò, dice che lo Stato è «eterna autocritica e eterna rivoluzione». Come coscienza del realizzarsi dello Stato, la filosofia è la coscienza che lo Stato ha di sé ed è quindi critica dello Stato, ossia di tutto ciò che in esso «sta» (come suggerisce la parola), fermo, morto. Se non c'è critica dello Stato c'è, dice Gentile, «statolatria». E - sappiamo - il fascismo è stato una delle negazioni più perentorie dell'autocritica dello Stato. Dunque la filosofia è critica anche della Chiesa cattolica come organismo dogmatico che non intende mutare e rinnovarsi e pertanto è anch'essa «stato», qualcosa di statico che lo «Stato» finisce col negare e col superare. Gentile si sente cristiano, ma proprio per questo si oppone, in nome dello Stato spirituale, al concordato tra Stato e Chiesa, ossia tra cose morte. Anche lo «statista» è cosa morta. Nel 1944 lo statista per eccellenza, agli occhi di Gentile, non può essere che Mussolini: «Lo statista, che è una persona fisica, oltre che un indirizzo politico, un regime (...) rappresenta sempre (...) qualche cosa di statico e astratto, che la vita dello spirito (...) deve negare e superare». Nella sua forma più alta, tale vita è la filosofia. Se il fascismo («il recente movimento politico italiano») non è critica e autocritica dello Stato ed «esigenza di una rappresentanza organica» in senso democratico e liberalconservatore, quelli del fascismo, scrive Gentile, sono solo «esperimenti costituzionali (...) viziati nelle forme provvisorie di applicazione dalle necessità transitorie del momento politico». L' individuo che vede la propria appartenenza al divenire della realtà, cioè allo Stato, «vuol essere», dice il passo riportato per primo, «senza limiti né ostacoli di cui non abbia a trionfare». Solo l'inevitabilità di un pensiero come quello di Gentile può fondare il dominio della tecnica, cioè mostrare, appunto, che essa non ha davanti a sé né limiti né ostacoli. All'opposto di quanto si crede, la solidarietà tra idealismo gentiliano e civiltà della tecnica è profonda. Per questo Gentile non è acqua passata.

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