Wittgenstein
Cari lettori della Cittadella, anzitutto mi scuso per il black-out di qualche giorno, dovuto ad alcuni problemi con la linea internet. Oggi volevo sottoporvi alcune impressioni che ho avuto durante lo studio di alcuni testi di e su Ludwig Wittgenstein, in occasione dell'esame di filosofia del linguaggio. Difatti come già saprete l'area tematica in questione non è tra le mie preferite nè, sono sincero, ho una conoscenza degli autori pre-Wittgenstein e degli snodi successivi adeguata a trattarne, seppur brevemente, sul blog. Anzi, il trattare brevemente un argomento e quindi la capacità di sintetizzarne i punti cardine presuppone, al contrario, una conoscenza solida e delle idee chiare e, quantomeno, fondate sui testi. Tuttavia mi preme condividere un breve appunto che segnai sul quaderno circa un mesetto fa, durante la lettura - faticosa! - del Tractatus e di alcune conferenze. Lo ripropongo qui di seguito nella sua "autenticità", in piccoli spunti forse sconnessi e forse, davvero, fuori luogo.
Man mano che si avvicina a fine Tractatus, W. esprime un "sentimento" del limite del mondo che lui chiama mistico. Durante lo svolgimento, seppur a tratti in modo macchinoso e, forse, involontario, assistiamo ad un progressivo avvicinarsi ai limiti del linguaggio, in un movimento che lui stesso concepisce come il salire una scala a pioli - poi da gettare! Ecco che le proposizioni di coda del Tractatus cercano di mostrare l'inesprimibile attraverso il frantumarsi dei limiti del linguaggio - ossia i limiti del "mio" mondo - facendo leva sulla loro scorrettezza (non-sensi).
Il pensare non si riduce al dire; il linguaggio come "dire" non dischiude l'indicibile presupposto di se stesso, ecco perchè devo accettare di usare un linguaggio logicamente inesatto, che non rappresenta nulla, ma evoca. Si recupera, forse, una sorta di valore poetico. La forma più alta del linguaggio è allora la poesia, che evoca e dischiude.
Lo sforzo del linguaggio di esprimere la propria espressività è votato allo scacco, al fallimiento. Solo allora il linguaggio fa i conti con il limite che esso è; diviene vocazione al mostrare e all'evocare. Dieviene poesia, che fa segno ad un'indicibile che è al di là del mondo come suo presupposto. Non ricordo voe, lessi di un tale che ipotizzava il Tractatus come introduzione al Pellegrino Cherubico di Silesio. L'idea non è malvagia. D'altronde il progetto mi sembra simile al Musst kantiano. Dove la Ragion Pure non sa andare, al noumeno-presupposto d'ogni conoscere e, quindi, dire, Kant tenta un'accesso tramite l'etica pura. E' il musst Angelico! Così anche in W.?
Commenti
Potrei sbagliarmi, perché il Tractatus non l'ho mai letto tutto, però mi pare che Wittgenstein sia un po' meno heideggeriano di così!
La mistica per lui dovrebbe essere più che altro qualcosa come "tacere (myo) di ciò di cui non si può parlare". Non ricordo che ci sia (quanto meno nel Tractatus) l'idea di un "lavorio ai bordi" un po' derridiano al limite del linguaggio e della sua condizione di possibilità (il senso, quindi inevitabilmente anche il non senso). Credo si potrebbe anche discutere nello specifico delle differenze fra Wittgenstein e lo strutturalismo (e post-strutturalismo), io temo che non sarei capace di andare oltre alcune intuizioni vaghe.
Mi sembra almeno che a Ludwig in quel periodo interessasse tuttavia proprio isolare la filosofia del linguaggio dal resto, dandole un suo statuto, per cui i rapporti col bordo sarebbero proprio di chiusura totale ("su ciò di cui... non si deve parlare" cioè non c'è linguaggio e quindi non mi interessa al momento) per poter poi lavorare, senza ostacoli esterni, seguendo la logica interna delle proposizioni. Il pensiero come immagine logica dei fatti è munito (sempre) di senso, le proposizioni sono (sempre) funzioni di verità, e quando non lo sono non sono tali e non interessano. Al limite è chiaro che l'idea è che tutto il reale (mondo come insieme di fatti) è logico o quantomeno questa è la parte che interessa. Il resto si tace, e amen, con molta più rigidità rispetto all'abolizione dell'uso trascendentale della ragione di Kant, che poi tanto si recupera nella pratica.
Certo rimane come suggerito un qualcosa di più (l'oltre la scala a pioli), che resta però solo l'inevitabile negativo del sistema logico-formale del Tractatus. Ma è un negativo netto, senza le "contaminazioni" che soprattutto nel post-strutturalismo (Foucault, Deleuze, Derrida su tutti) saranno imperanti (il concetto di "Differenza" contro quello degli opposti hegeliani).
Premesso questo, possiamo entrare in medias res. Quello che scrivi è interessante e condivisibile e dire il vero mi stupisci quando parli di una visione "heideggeriana", a me davvero distante. Sincerametne, nella stesura pensavo a tutto meno che al tuo pupillo (frecciata :D) ma accetto benissimo il rilievo anche perchè esprime la tua libertà di interprete - libertà resa tanto più amplia dallo stile dell'articolo. Il progetto del Tractatus è certamente quello di "isolare" il linguaggio, come giustamente scrivi, e di valutarne la corrispondenza con il vero; non dimentichiamo che W. inizia a muoversi sulle tracce di Frege, del problema del senso e della denotazione che un anno fa ho discusso anch'io nella Cittadella (qui). Questo tentativo di isolare il linguaggio a mio avviso non rimanda tuttavia ad una chiusura con l'esterno, come fai intendere, magari verso quei tecnicismi e davvero quelle isole che vennero a crearsi nel Circolo di Vienna. D'altronde quella del Circolo di Vienna è una strada possibile, più o meno condivisibile, che a tratti tocca le questioni di Wittgenstein in particolar modo in merito alla filosofia della scienza - questioni e obiezioni di grande rilievo, che spero di discutere con l'amico Jonathan Fanesi. Ma tornando al "negativo" e a questa lettura ontologica di W., che forse da lui sarebbe stat bocciata, devo dire che gli spunti che offri sono (come al solito) di grande interesse e, anzi, ti chiederei di approfondire quel "lavorio ai bordi", un po' "derridiano", come scrivi. Secondo me continuare a lavorare quella metafora dell'isola, come stiamo facendo, è di grande aiuto. Se difatti il tentativo di W. è di isolare il linguaggio, il problema dei "bordi" e dei "confini" non può che tornare prepotentemente sulla scena. Tra l'altro possiamo assumere questa metafora da Kant, nella Ragion Pura, magari cercando di riassorbirlo nel ragionamento.
Sintetizzando molto e in quel poco che posso dirti dalle suggestioni che mi sono rimaste, direi che l'isolare una parte razionale da una "irrazionale" del mondo è un processo ereditato fortemente da Schopenhauer, riferimento costante nella Vienna di inizio secolo, anche se certamente con intenti ed esiti a volte totalmente opposti. Più generalmente il problema è quello hegeliano di un mondo rigidamente diviso in bianchi e neri, tesi e antitesi (lo stesso Schopenhauer è molto vicino una antitesi a inversione delle tesi hegeliane?), in cui il negativo (logico, perché il non A esiste solo nella Logica, che è poi il fondamento dell'enciclopedia delle scienze filosofiche) è il movimento principale del pensiero. In breve questo significa il rapportare/ridurre le differenze al loro estremo, cioè l'opposto, l'antitesi, trattandole così solo "negativamente" come forme inverse dell'uguale (e magari si parlerà di positivismo, logico o meno, proprio per questo). Insomma anziché lavorare sui bordi, per capire dove finisce la terra e comincia il mare, ovvero dove passa la differenza, si pensa prima che esista l'isola come atomo logico (generalmente è il cogito) e poi da lì si consolida ed estende la fortezza a cerchi concentrici sempre più larghi, padroneggiando l'altro in quanto inverso del sé (il famoso non-Io).
E' questo che nel secondo novecento, sulla scia di Nietzsche, e col referente dello strutturalismo, è stato fortemente criticato. Il pensiero negativo sarebbe insomma capace di rendere conto solo della "Rappresentazione" (in Schopenhauer c'è il "principio di ragione", protagonista di tutto il primo libro del Mondo) e si lascerebbe la "Volontà" ad essere presa in considerazione solo in quanto opposto/inverso (l'acqua è la non-isola). E' ben diverso dal concetto di Nietzsche della volontà di potenza, che è del tutto priva di rappresentazione, è essa stessa direttamente tutto il mondo e tutto l'essere, è una massa di significanti senza il referente fisso del significato, un fenomeno senza noumeno, ecc... c'è qualcosa di questo nei giochi linguistici del secondo Wittgenstein. Ti citavo prima Derrida (il riferimento n.1 resta Deleuze) perchè è quello che più di tutti ha provato a riprendere le questioni del pensiero "negativo" a partire da una concezione non rappresentativa della differenza, ma adesso sarebbe un po' lungo trattare tutto questo.
Diciamo che Wittgenstein, parere personale, è stato più bravo a porre domande che a rispondere. Il tractatus è un bel sogno apollineo, ma l'apollineo da solo è forma sterile...