L'angelogia di Leibniz
Questa sera volevo proporvi la lettura della recensione appena pubblicata sul Giornale di Filosofia della Religione, realizzata dal prof. Mario Micheletti sul volume di Mattia Geretto, L’angelologia leibniziana (Rubbettino, Soveria Mannelli 2010) (qui). Ringrazio il professore per la recensione di questo testo molto interessante, tanto per la sua "originalità" quanto per la sterminata tradizione a cui rimanda. L'angelogia è una di quelle tematiche che corrono al limite tra la filosofia, la teologia, la mitologia e persino l'irrazionalità e la superstizione. Porfirio si impegnò nel debellare dalle scuole platoniche la tendenza ad affidarsi a questi demoni, considerati come quel medio tra l'umano e il divino indispensabile nella trasmissione delle preghiere; ce ne danno notizia Apuleio e soprattutto Agostino nel De civitate Dei, quando la demonologia platonica inizia a trasmigrare nel neonato pensiero cristiano. Non ho intrapreso studi particoli in merito, ma credo che la sterzata decisiva dell'angelo verso la filosofia teoretica sia da inscrivere al neoplatonismo e in particolar modo a Dionigi, che non ha timore di riprendere il sistema procliano "arricchendolo" di queste figure la cui valenza "simbolica" o "reale" è tutta da discutere. Credo che soprattutto l'influenza che Dionigi ha avuto nel medioevo abbia determinato quei continui richiami alla figura dell'angelo in sede teoretica, anche in autori apparentemente lontani da quella tradizione, come l'aquinate. Non voglio sottovalutare la componente "biblica", ma credo che un ruolo decisivo nel medioevo lo abbia avuto proprio la lettura dionisiana. Già nella metà del XV sec., tuttavia, l'angelo sembra avvicinarsi alla storia umana, come accade nel De Pace Fidei del Cusano, quando Dio chiama a sè "gli angeli delle nazioni", portatori delle identità dei popoli e delle religioni degli uomini. Questo progressivo "ritorno" dell'angelo alla dimensione "umana" sembra chiaro nel testo qui proposto, quando Leibniz sembra porlo nello stesso universo delle monadi in cui pone l'uomo stesso. L'angelogia leibniziana dunque prosegue l'avventura degli angeli nella dimensione teoretica ma, contemporaneamente, rompe la trascendenza dei "cieli" dionisiani e danteschi, in piena concordanza con il suo tempo. Mi scuso se il contributo è eccessivamente "tecnico" ma mi premeva sottoporre alla vostra attenzione questo breve profilo storico dell'angelo e della sua avventura nella filosofia, tenendo ben presente quanta strada ha percorso da quel demone "mangiatore di odori" descritto da Giamblico, a portatore di un "proprium [...] in quanto entità specifica della rivelazione".
Commenti
Come nella tradizione barocca, sembra esserci un vero e proprio horror vacui nel pensiero di Leibniz: tutti i buchi, le distanze incolmabili, vengono riempite. Heidegger lamenterebbe qui l'ossessione di rendere tutto calcolabile (compresi i vuoti e gli infiniti insomma, con derivate e integrali), e in effetti penso che qui si giochi una partita importante. Se vogliamo pensare ancora la spiritualità e l'angelico come un corpo estraneo, spesso un punitore celeste (come nel 90% dell'antico testamento), oppure se vogliamo provare a pensarlo coerentemente con l'etimo come un messaggero, un punto di passaggio, di continuità della serie che la rende così differenziabile. Mi vengono in mente alcuni quadri di El Greco (i due battesimi di Cristo e la sepoltura del conte Orgaz per esempio) in cui pur nella netta opposizione di alto e basso (monade appercettiva e monade confusmente sensoriale) c'è sempre un corridoio che li fa comunicare (e sono ovviamente quasi sempre il Cristo eu-angelico e gli angeli che vanno a riempire quel vuoto nel mezzo). Qui non sarebbe forse più un'ossessione di "calcolabilità" del tutto, ma piuttosto sarebbe una convergenza operata dall'atto di fede e di incarnazione, che più che rendere materiale (quantitativo e quindi calcolabile) lo spirituale, restituisce la materia come forma irrigidita della trasmissione vitale che genera il tutto. Non siamo probabilmenete caduti molto lontani dall'albero del neoplatonismo, però forse abbiamo anche un seme capace di far crescere un albero ancora più solido e rigoglioso di quello di Porfirio.
E su questo universo di monadi e di elementi "spirituali" si innesta la figura teoretica dell'angelo, platonicamente intesa come "mediatore", come tu giustamente rilevi e a cui non ho da aggiungere nulla. Sottolineo soltanto come anche in questa occasione si senta la distanza tra Atene e Gerusalemme, tra l'angelo-messaggero e l'angelo-corporeo-punitore e come questa distanza rimanga tutto sommato chiara an che dopo la colossale rielaborazione cristiana, il cui merito, forse è proprio di continuare a tenere aperta la questione: una "sintesi" che tiene separati i distinti e ne assicura il movimento interno; una sintesi che è vita e non la calma piatta dell'oceano, come scriveva Hegel. Ma questa mia chiusura è, forse, un po' troppo hegeliana e, appunto, totalizzante.
Non sarei in grado però di dare totalmente torto all'analisi heideggeriana della storia della metafisica, ivi inclusi Leibniz, Hegel e Nietzsche. Penso piuttosto che sia proprio per la loro appartenenza alla metafisica che questi filosofi hanno potuto dire tanto sul mondo, perché il mondo è fatto dagli enti, e sempre da questi (in via "negativa"?) si potrà forse arrivare al "differente ontologico" di turno. Lasciare l'Aperto non potrebbe forse essere soprattutto "costruirsi" la radura, a partire dal chiuso che la circonda (scolpendo la statua plotiniana per esempio, ed anche per questo è necessaria una certa conoscenza tecnica, calcolatoria)?
Nei grandi pensatori e nei grandi artisti quasi sempre questo c'è. In Heidegger c'è (basti pensare a quanto dice di Holderlin), ma sembra quasi che per lui fosse necessario averne l'esclusiva includendo tutti i predecessori sotto l'egida di "metafisici", almeno questa è l'impressione che ogni tanto mi viene.