Come pensare "il corpo" nella società contemporanea?

Il tema del corpo nel neoplatonismo antico è complesso e rimanda a tutta una serie di questioni ontologiche e gnoseologiche; al problema di come l'anima possa essersi legata al corpo e soprattutto a cosa intendere per corpo e per anima. D'altronde possiamo facilmente richiamare il famoso incipit delle Enneadi, dove Porfirio ci racconta, forse un po' calcando la mano, come il suo maestro Plotino «si vergognava di essere in un corpo». Non bisogna tuttavia dimenticare che questa concezione del corpo si fonda sugli antichi testi di Platone e in particolare su quel Simposio che determinò le sorti del platonismo successivo e che ricorre continuamente non solo nelle opere del cigno del paganesimo, Plotino, ma, appunto, in tutta la scuola neoplatonica e potranno poi, attraverso S.Ambrogio, Mario Vittorino e Agostino, penetrare anche nel nascente mondo cristiano.

Insomma, ci sono testi e concezioni che formano la mentalità di un'epoca intera e così ne determinano i costumi, l'etica e i giudizi morali; e per quanto riguarda il corpo possiamo osservare lungo la storia un cambiamento radicale proprio in quanto giudizi e concezioni; un mutamento di prospettiva che sembra segnare non soltanto la vita di un ristretto gruppo di studiosi, come spesso accade nella storia del pensiero, ma tutta una Weltanschauung fino alla volgare opinione pubblica. Nell'anno di grazia 2010, un'idea del corpo come quella che i platonici hanno espresso nei loro testi non può che apparire stramba e persino assurda. Quelle dottrine hanno percorso fino ad ora molta strada e oggi ne percepiamo più che altro un'immagine mediata dal cristianesimo medievale. Difatti quei testi subirono una prima rilettura proprio nei primi anni di vita del cristianesimo, a cui, grazie alla sua dottrina della redenzione dei corpi, spetta poi il ruolo di riscattare la "morta" materia platonica - ammesso che sia realmente "morta" - e ridare così una nuova sistemazione al corpo all'interno dell'universo concettuale e valoriale della nuova società medievale. Quello a cui stiamo facendo riferimento è dunque un insieme complesso di teorie e idee sul corpo che hanno avuto la meglio per circa un millennio e mezzo, finchè cambiarono nuovamente i presupposti della società: nel XXI secolo, di quelle idee non rimane pressocchè nulla se non una impietosa caricatura che sopravvive, più distorta di qualche anno fa, nell'immaginario comune.

Questo breve excursus mi consente ora di porre il problema che più mi interessa discutere, ovvero l'immagine del corpo nella società contemporanea: quale valore che attribuiamo al corpo e quali testi o quali modelli possono codificare i nostri comportamenti, che definiamo etici, e i nostri giudizi in merito ai pensieri e alle azioni proprie e altrui. Mi affido alle vostre analisi, da cui poter partire al fine di una riflessione più articolata e condivisa; chiaramente non si tratterà di offrire un giudizio negativo o positivo sulla nostra società, dato che di queste tematiche La Cittadella è colma: si tratterà di pensare il corpo nel mondo attuale facendo riferimento alle questioni appena poste; oppure, tornando ancora in medias res, come nell'esempio del Simposio, di quali modelli e testi siamo figli e cosa ci ha spinto a questo tipo di valuzione? Ancora, esiste una concezione univoca o una tendenza più forte delle altre - che farebbe parlare, appunto, di visione del mondo della società attuale - oppure vi è soltanto uno spezzatino di vecchie culture, dei relitti di vecchi velieri, oramai spiaggiati all'alba di questo nuovo millennio? A quali stratificazioni, quali dossi e quali fiumi carsici dobbiamo attraversare per ottenere un quadro il più possibile soddisfacente?

Commenti

sgubonius ha detto…
Penso che Nietzsche abbia scritto delle cose fondamentali in questo campo, facendo del problema del corpo un problema fondamentale, proprio gnoseologicamente ed ontologicamente. Non è un mistero che secondo lui è proprio la concezione platonica del corpo come prigione/caverna dell'anima cascata dall'iperuranio che ha in sé già tutto il germe del nichilismo successivo. Oggi avremmo semplicemente i frutti di quel dualismo fra origine e degradazione, per cui "rotolando via dalla x" abbiamo un corpo orbo di tanto spiro e tuttavia incapace di darsi un valore alternativo (e quindi in qualche modo in balia del sistema universale del valore, cioè la domanda e offerta, a modi pezzi di carne esposti).

Evitando i discorsi banali sul decadimento dei costumi, resta un problema enorme di dare un senso, una forma nuova, a questa carne (vengono in mente i quadri di Bacon), diventare, per continuare il discorso nietzschiano, plasmatori e creatori in essa (non fuori, in una kenosis azzardata) e non schiavi delle sue leggi d'inerzia o di pesantezza.

Certamente detto così vuol dire tutto e niente, bisognerebbe radicare poi meglio il discorso per vederne l'integrazione con l'estetica, l'etica, la questione della verità, dell'ermeneutica, tecnica, eccetera.
Quindi mi sembra di capire che condividi l'analisi nietzschiana. Non so, trovo che sia un tema davvero complesso, che non riesco ancora a pensare adeguatamente slegato dall'impianto platonico-cristiano, pena il cadere in una chiacchiera post-moderna o sul prezzo della carne (bella immagine). Però mi interessa quanto scrivi su N., approfondisci...
sgubonius ha detto…
Infatti non è assolutamente necessario (né fruttuoso) pensare il corpo in maniera slegata dall'impianto platonico-cristiano (è nietzschiano già questo trattino fra le due parole in ogni caso!), piuttosto è a partire da quel dualismo che si costruisce qualcosa.
La storia (del concetto) ci insegna che partendo da questo dualismo stretto si arriva inevitabilmente ad abbandonare la carne a se stessa (tralascio al momento le condizioni, ancora più strette, necessarie perché funzioni la sintesi hegeliana) come mero decadimento ed escrescenza superflua (e intralciante) dello spirito o della volontà (o banalmente dell'Uno) che nel migliore dei casi fa "giustificata". Ci vorrebbe invece una logica diversa, per la quale non si dà forma senza materia, non c'è verbo senza carne, non c'è Uno senza articolazione interna nel due (ricorderai il paradosso del Parmenide platonico: se l'Uno è, si sdoppia immediatamente in Uno ed Essere).

La filosofia è stata ed è ossessionata da questo problema, che è un problema in ultima analisi "del corpo" (nel puro spirito non si porrebbe il problema, ed è poi questa la premessa hegeliana) e questo Nietzsche ha capito volendo riportare l'attenzione sul corpo, "ribaltando" Platone, ma non per una nuova gerarchia (alla Feuerbach o Marx) dello strapotere della materia. Le gerarchie vengono dopo, pensa a Spinoza per avere il modello più semplice dei rapporti fra l'Uno e gli attributi (la gerarchia può iniziare nei modi per gradi di potenza).

Da qui in poi il lavoro è in qualche modo ancora in corso, tutto il novecento (sulle basi ottocentesche di Nietzsche, di Mallarmé, ecc) ha lavorato su questo (Bergson per esempio, ma perfino Heidegger ha cercato di pensare nell'ereignis il rapporto dell'essere nell'esserci). Idem le attenzioni che nel cristianesimo, dopo l'idealismo, ritornano alla sua vera peculiarità, cioè l'incarnazione. Si tratta comunque di cominciare a non identificare il trascendente nella parte spirituale (per cui coincidono sempre vero, bello e buono) ma vedere come esso possa solo emergere nel composto immanente di corpo e anima (riprendo Spinoza che è chiarissimo: la Sostanza-Uno trascende in qualche modo il singolo attributo, e anche i due attributi che ci sono concessi, pur esprimendosi, senza gerarchie, in essi).
Hai sintetizzato magnificamente il nucleo della questione e per questo ti ringrazio. Devo dire che il primo spunto che mi sorge leggendo la tua risposta è che realmente un certo tipo di neoplatonismo, nietzsche e spinoza, così heidegger e tutti coloro che hanno cercato di pensare l'enigma dell'unità di quel dualismo siano giunti allo stesso invalicabile limite. E' una ricerca interessante, che, tempo e finanze permettendo, mi sto convincendo sempre più di portare avanti una volta finita la routine universitaria. Non saprei dire molto in aggiunta. Eppure una possibile critica che mi viene in mente al nostro approccio è che in qualche modo esso rimane ancora una volta idealistico-spiritualista p giù di lì. Voglio dire, anche quando diciamo che Nietzsche ha in realtà radicalmente rimesso in gioco i termini della question "rovesciando" platone, in realtà lo stiamo dicendo affontando già in anticipo nietzsche con un certo tipo di filtro. Ora, non voglio cadere in circoli viziosi nè tentatre di ridurre la questione ad un continuo ritorno del pensiero su stesso, eludendo così tanto il nucleo centrale tanto le ricchezza di questo approccio, eppure sono convinto che questa lente influisca troppo. Non offenderti per il tentativo di inscatolarti, ma dopo anni (!) di conoscenza-dialogo virtuale, credo di aver inteso il tuo modo spinoziano di procedere e mi sembra tanto-troppo simile al mio. A mio avviso dovremmo sforzarci di pensare il corpo in maniera diversa: l'impressione è che siamo troppo con la testa immersa in determinati schematismi. Non so se condividi il mio cruccio...
Andrea S. ha detto…
Mi inserisco brevemente nella discussione solo per ricordare che storicamente quella neoplatonica non è stata l'unica immagine del corpo su cui la tradizione occidentale ha riflettuto. Senza soffermarmi sulle altre concezioni già operanti in ambito greco, mi limito alla modernità, nella quale mi muovo meglio. Da Cartesio ai Libertini, da Spinoza ai sensisti, passando per Hobbes e i famigerati "empiristi inglesi", il tema del corpo ha suscitato prese di posizioni che non sono in nessun modo assimilabili alla semplice opposizione pro o contro la concezione neoplatonico-cristiana (e anche qui la cosa è difficile). E in tutte queste concezioni che cito c'è un esplicito intento anti-neoplatonico di rivalutazione. O comunque un paradigma (in senso khuniano) diverso per concepire il corpo. Circa la contemporaneità credo che un punto importante sarebbe quello di capire il rapporto tra corpo e mondo online. Lev Manovich che insegna al MIT in USA ha scritto belle pagine (Il linguaggio dei nuovi media) a proposito dell'esautorazione della corporeità a cui i nuovi media conducono. Insomma, per avere risposte un po' circostanziate bisogna porre domande un po' circostanziate e questo potrebbe essere un buon inizio di discussione.
Unknown ha detto…
Chi ha operato la saldatura tra l'antropologia cristiana e la visione neoplatonica della corporeità è stato Paolo di Tarso.
E' nell'epistolario paolino, infatti, che va cercato il primo germe di quell'anticorporeismo poi largamente ereditato da una certa coscienza infelice del cristianesimo medioevale.

Scrive Paolo ai Romani:
"So infatti che non il bene abita in me, cioè nella mia carne, (...) vedo nelle mie membra un'altra legge, che lotta contro la legge della mia mente e che mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? (...) con la carne (sono) servo della legge del peccato.”
Pauli Epistula ad Romanos 7, 13-25.

Questa teologia del corpo è totalmente estranea al Vecchio Testamento, e mi pare che scarsa eco trovi anche nei Vangeli, a meno che non si legga in questa chiave l'invito di Cristo a "cavare e gettar via da sé l'occhio che dà scandalo, perché è meglio entrare nella gloria di Dio con un occhio solo che con entrambi essere gettato nella Geenna".

Mi riservo di integrare più tardi con qualche altra considerazione. Per il momento volevo solo cercare di circoscrivere bene il punto in cui è avvenuta la saldatura tra la svalutazione del corpo di marca neoplatonica e quell'antropologia cristiana che abbiamo in larga misura ereditato.
Luca Bozzato ha detto…
Buongiorno a tutti i lettori della Cittadella!

Sul corpo e i nuovi media hanno scritto belle pagine anche i “classici” Baudrillard e McLuhan; ma che tecnologia ed esautorazione del corpo vadano di pari passo, lo smentiscono ricerche e scoperte della robotica (intelligenza comparata), della nanorobotica e della simulazione integrale: un nome su tutti è Marvin Minsky, forse il padre fondatore di questa branca della scienza e anche lui lavora all’MIT. Filosofo di formazione, anche la figlia è filosofa e si occupa di percezione aptica e di propriocezione, ovvero delle sensazioni legate al tatto e del nostro collocarci fisicamente nel mondo attraverso sensi diversi dalla vista (ovvie le applicazioni alle macchine, dai robot chirurgo ai controller dei videogiochi; riecheggia Heidegger?).

Intervengo su gentile segnalazione di Andrea del suo post, che ritengo una questione primaria e un ambito di ricerca esploratissimo al giorno d’oggi, e di importante ricaduta scientifica (si pensi solo alle applicazioni dell’intelligenza comparata/artificiale, alla simulazione integrale e alla robotica, appena citate). Ma il corpo è da sempre stato oggetto della filosofia: soggetto di desiderio, ostacolo per la saggezza, luogo della passione autodistruttiva, meccanismo, oggetto pulsionale, veicolo del nostro essere al mondo, punto di forza delle lotte tra sapere e potere, evanescente di fronte alle nuove tecnologie… Per quanto mi riguarda, penso che la concezione del corpo più penetrante, e con la quale mi trovo più d’accordo, sia quella espressa bene da due autori contemporanei quali il prof. Umberto Galimberti (che ha fatto dell’indagine sul corpo e sulla sua declinazione nella storia del pensiero la ragione della propria carriera) e, per quanto giovane, Giulia Sissa (ora insegna all’UCL: nota per aver scritto “Il piacere e il male. Sesso, droga e filosofia.”, dal quale Galimberti ha operato il famoso plagio in uno dei suoi ultimi libri). La posizione particolare dei due autori riguardo al trattamento del corpo in Platone merita di essere sintetizzata, perché centra secondo me un punto focale, sfuggito all’attenzione della vulgata secondo cui Platone disprezzerebbe il corpo tout court. Secondo questi due autori, Platone disprezza il corpo perché non è uno strumento affidabile di conoscenza. Mi distacco tuttavia dalla loro interpretazione, tuttavia, in quanto essi lasciano intendere che Platone, pur giustificatamente, svaluti il corpo ancora tout court: io invece sono convinto, confortato da passi platonici generalmente poco letti, che ci siano delle prove evidenti nei Dialoghi che Platone incoraggi invece la cura del corpo.
Luca Bozzato ha detto…
Sappiamo infatti che Platone era un pitagorico di formazione; e che nelle scuole pitagoriche vigeva la prescrizione severa di una dieta vegetariana e di esercizi fisici per mantenere in forma il corpo. Il primo gradino dell’educazione che il cittadino della Repubblica deve ottemperare, è la ginnastica: la concezione della potenza e del limite delle proprie possibilità fisiche è il primo gradino per la padronanza di sé. Il secondo è la musica: l’euritmia deve forgiare il giusto respiro del corpo. Andrea cita il Simposio: ma quale discorso? Non quello di Socrate, in cui si parla della fisicità (brutta o “diversa”, come quella del sileno Socrate) del demone Eros. Non quello di Alcibiade, dove il fiore della giovinezza del ragazzo fattosi uomo, viene rifiutato solo in quanto chiesto a scambio con la sapienza di Socrate – uno scambio truffaldino, bronzo per oro. D’accordo ma allora, l’Alcibiade maggiore? Qui si dice esplicitamente che l’uomo è la propria anima, non il proprio corpo! In realtà, se si prendesse la briga di leggere qualche riga più avanti, vedremmo chiaramente come Socrate sta dicendo una cosa diversa: l’anima è metonimia per uomo, ma non è l’uomo completo, che è formato dal suo corpo e dalla sua parte razionale, la quale è la parte direttiva certamente, e pure la parte “migliore”, ma non coincide con la totalità dell’uomo. Quando Socrate vuole parlare ad Alcibiade si indirizza ovviamente alla sua pyschè (=facoltà razionale), ma lo fa guardandolo in viso, attraverso i suoi occhi (non sono parole inventate ad effetto, lo dice Socrate nell’Alcibiade Maggiore, 130d8 ss.).

Ora, è innegabile che esista un dualismo in Platone. Ma questo dualismo è funzionale alla costruzione dell’edificio della scienza che Platone aveva in mente. Questa idea mi balzò in mente quando, ad una lezione di filosofia per non filosofi, il mio amico relatore non seppe rispondere alla domanda di un astante: “Ma se per Platone il corpo è carcere dell’anima, cosa gli impedisce di suicidarsi?” Mi resi conto che la riposta alla domanda era più semplice del previsto. Prendiamo Lucrezio: la sua opera di traduzione di Epicuro fu altamente originale, perché dovette inventare e codificare nuovi termini filosofici per dare una tradizione filosofica originale e rispettabile alla latinità. Una cosa analoga succede per Platone, ma più difficoltosa in quanto, essendo il primo vero scienziato, si trovava a dover inventarsi da zero un linguaggio “scientifico”. Per far capire la portata rivoluzionaria che, nella fondazione di quella che noi attualmente chiamiamo “scienza”, operò il pensiero matematico, Platone aveva a disposizione il linguaggio dei miti orfici. Secondo questo linguaggio, realmente il corpo è carcere dell’anima. Platone si serve in maniera figurata di questo linguaggio, per significare la portata sconvolgente che la matematica (che non è pratica del calcolo, ma scienza del calcolo; che non si fa con riga e compasso, ma coi logoi), sapere che non è come giocare a girare i sassi, ma un qualcosa che può mutare l’anima da un giorno che è come una notte, a un vero giorno (Repubblica, 546?).
Luca Bozzato ha detto…
Qual è il background culturale di Platone? È un eracliteo, e un socratico. Da Eraclito trae il senso potente ed essenziale del divenire, da Socrate trae la possibilità di scorgere un’oggettività attraverso le critiche della sofistica, che avevano fatto dell’uomo (e del suo corpo) misura di tutte le cose. Sappiamo, da Eraclito, che normalmente gli uomini “dormono”, o sono sordi, rispetto al logos (irrazionali? Platone inserisce l’irrazionale matematico nella filosofia, e i numeri irrazionali sono detti “sordi”, nella tradizione matematica successiva: sono sordi al logos pitagorico, che prima di tutto è un rapporto matematico). Così è per Platone: gli uomini sono solitamente sordi al logos perché fanno delle sensazioni del loro corpo l’evidenza primaria, la fonte di conoscenza precipua. Ma così facendo, ottengono al massimo opinione, non conoscenza (dove per conoscenza dobbiamo intendere un sistema di credenze legato alle loro ragioni; ancora, ai loro logoi). Se gli uomini si affidano al corpo come fonte di conoscenza della verità, otterranno sempre e solo il ritorno delle loro sensazioni particolari, private, "idìa". Se invece vogliono accedere alla verità del logos, che è per tutti (coloro che la vogliono, e sono in grado di, ascoltare), allora devo cercare di aprirsi al logos, cioè di spogliarsi della loro particolarità empirica per essere la parte migliore di loro stessi (Alcibiade maggiore), cioè la loro parte razionale.

La scienza promette, secondo Platone, verità indipendenti dalle contingenze fattuali (si veda la insistente distinzione tra matematica come calcolo, e geometria come scienza del calcolo e dei rapporti). Ma per essere in grado di accedere a tali verità, si deve cercare, per quanto possibile, di essere simili a loro: spogliarsi della soggettività e della passioni, che hanno sede nel corpo (anche fisicamente: si veda la localizzazione dell’anima emotiva e appetitiva). La scienza è attività eminentemente noetica.

D’altronde, ciò ha ricadute immediatamente pratiche: visto che l’uomo saggio/virtuoso è anche l’uomo massimamente felice. Il tema è poi confortato dalla tradizione ellenistica successiva, che si impernia sul rifiuto delle sensazioni del corpo come strumento di conoscenza, e sul controllo delle passioni per raggiungere al saggezza. A mio avviso, Platone è stato molto più raffinato.

Spero di non aver annoiato con la lunghezza,

Luca
Grazie a tutti per essere intervenuti, spero che questa discussione sia piacevole e ci doni frutti maturi e luce divina per il nostro intelletto!

Luca, analizzi con precisione il tema del corpo in Platone e sono d'accordo con te quando ne sottolinei la funzione fortemente indirizzata verso la filosofia teoretica, tuttavia sarebbe forse meglio non fossilizzarsi sull'analisi dei testi platonici perchè potrebbe farci perdere il focus dell'oggi. Possiamo sfruttare però quanto scrivi in questo senso: se è vero che anche in Platone il tema delle corporeità non è trattato in maniera rigidamente dualista, questo significa che le possibili immagini del corpo vengono ancora una volta a moltiplicarsi.

Ecco perchè Andrea Sangiacomo mi convince facilmente: sì è vero, di paradigmi ne esistono tanti ed è proprio quanto sottolineavo anch'io in chiusura dell'intervento. Ma sarebbe interessante capire se:

i) se, in che forma e attraverso quali dinamiche questi paradigmi sono presenti nella società contemporanea; E quindi, se hanno ancora valore, essi possono essere pensati come sghembi rispetto alla tradizione neoplatonico-cristiana (su questo tema possiamo assimilarle anche in virtù di quanto scrive Tore Obinu), oppure se tutte quelle concezioni ne siano in qualche modo derivate e connesse; e se ne reggono tutt'oggi la sfida.

ii) se i paradigmi hanno dato vita ad un qualcosa di diverso - ovvero ad una nuova concezione dominante (si pensi ad esempio al mondo della tecnica heideggeriano) oppure se li rintracciamo oggi come tanti relitti di vecchie navi abbandonate sulla spiaggia (pensate ad una lettura del contemporaneo come quella di MacIntyre)

iii) se sono presenti nel mondo attuale e se ne hanno o meno formato una visione complessiva, allora chiediamoci se hanno realmente trasformato la società (magari, liquida?) o se in realtà la società è sempre la stessa; nel primo caso, verso cosa stiamo andando a finire?

Non so cosa ne pensiate voi in merito, cerco solo di stimolare la discussione scrivendo di getto quanto mi torna in mente. Dopotutto sono questioni che i ronzano in testa da un po' e a cui bene o male dovevo dare una forma.

Riguardo al tema dell'intelligenza artificiale, MIT etc., vi faccio una battuta: secondo me Cartesio se la sta ridendo della grossa. Dopo secoli in cui il cruccio più grosso sembrava quello di risolvere il dualismo (ancora!) cartesiano, da Spinoza a Kant, ad Hegel e Schelling, oggi grazie alla tecnologia stiamo andiamo proprio verso quella esautorazione del corpo, come scrive Luca Bozzato. Cosa siamo noi in internet, se non una serie di sostante pensanti? In una recente intervista al gruppo ASIA, Giovanni Reale notava proprio questo elemento, mettendoci in guardia su quanto stiamo adesso facendo noi stessi: nel dialogo via internet si perde il rapporto dell'anima con l'anima, ovvero quanto di più alto e fecondo avviene nel dialogo; si perde, in definitiva, tutta quella serie di elementi che non costituiscono una mera dimensione corporea, ma riguardano, in qualche modo, l'anima, alla cui cura è diretto il dialogo stesso. Ecco che ritornano i vecchi temi: l'anima, il corpo e il loro rapporto. Andrea S., in questo senso capirai perchè a mio avviso anche nella contemporaneità la sfida del neoplatonismo è ancora attualissima e irrisolta. Attendo vostri pareri, benchè i temi trattati siano davvero tanti e forse troppo ampli.
sgubonius ha detto…
Molta carne al fuoco!
Sacrosante le specificazioni su Paolo di Tarso come plasmatore del "platonismo del popolo" (anche Nietzsche ha spesso visto in Paolo il padre del nichilismo cristiano, contro un "immoralismo" di fondo di Cristo) e quelle su Platone.
Avevo citato sopra il paradosso del Parmenide platonico per sondare come già in Platone la separazione (krisis) fra il mondo ideale delle unità e il mare del molteplice non sia sempre così semplicistica. E' il Platone della conoscenza teoretica come mera astrazione dal sensibile che quindi va riconsiderato, quello che io sopra avevo sintetizzando dicendo che non si può identificare il trascendente col semplice (aplous) e quindi col vero/buono/bello.

Andrea, riguardo l'esulare dall'ottica occidentale io sono sempre dell'idea che si debba lavorare dall'interno (ne parlammo già riguardo al metodo "negativo" qualche tempo fa). Che poi mi pare sia proprio questa la "fedeltà" alla propria inevitabile limitatezza che diventa il rapporto col corpo, contro l'ideale di cui parlavo sopra di poter esulare dal punto di vista per andare nell'iperuranio oggettivo incorporeo e impersonale. C'è una circolarità, ed è un gran bene che ci sia, non vorrei divagare ma l'eterno ritorno in Nietzsche viene proprio per selezionare ciò che resiste alla prova della circolarità (che è poi quella dell'immanenza).

Non vedo comunque una differenza effettiva nel modo moderno di pensare il corpo rispetto a quello medioevale o arcaico. Svalutato era prima e svalutato lo è adesso (al massimo ora gli diamo un prezzo, che non è un valore). I paradigmi sono sempre gli stessi, e penso che queste siano questioni talmente radicali che non siano nemmeno soggetti ad evoluzione storica (piuttosto l'evolevere storico vi gira intorno come perno).
Luca Bozzato ha detto…
Probabilmente, nonostante (o forse a causa del)la lunghezza, sono stato frainteso :) La precisazione sui testi di Platone, all'apparenza pedante, era volutamente diretta ad un passo della conclusione del tuo intervento: come nell'esempio del Simposio, di quali modelli e testi siamo figli…? Il problema è proprio che crediamo di essere figli di certi modelli, quando in realtà questi modelli sono frutto di incompresioni. Per di più, ho anche indicato alcuni autori di riferimento che parlano di come intendere il corpo nella contemporaneaità, e proprio come incipit. Un altro titolo potrebbe essere la pregevole collettanea cafoscarina "il problema mente-corpo. Genealogie, modelli, prospettive di ricerca", Mimesis 2008. E poi sarebbero da citare sociologi, antropologi, storici della medicina, e chi più ne ha più ne metta.

D'altronde, la mia precisazione non manca di suggerimenti etici: il mio suggerimento etico è esattamente di recuperare l'unità mente-corpo che erroneamente di crede Platone abbia scisso, e tornare a considerare un'etica del desiderio (senza la quale, non ci può essere a mio avviso etica della responsabilità).

Per quanto riguarda internet, ecco che ritorna la precisazione platonica: si perde il dialogo anima con anima solo se con "anima" intendiamo la metonimia di "uomo", e con "uomo" intendiamo la sua psiche e il suo corpo. Allora sì, poiché si perde il corpo, si perde anche qualcosa del vero potere della parola (la quale è una grande dominatrice, con un così piccolo corpo…). Una lettura dualistica di questo problema sarebbe a mio avviso insensata: se anima e corpo sono due cose distinte, la comunicazione in rete non inibisce il dialogo anima con anima, ma anzi lo potenzia, perché non subisce i condizionamenti del corpo, e del volto, di noi e degli altri.

Un saluto! :)
Luca
sgubonius ha detto…
Tu dici che ci sono tutte queste differenze fra gli approcci platonici e quelli contemporanei? Io vedo molta continuità (a patto di mettere in luce quanto problematico è già Platone al suo interno), è proprio già il linguaggio che è tutto metafisico e impedisce di uscire dagli schemi dualistici, da i sistemi ideali, dal mito teoretico dell'astrazione e semplificazione.

Identicamente non credo che un mero mezzo tecnico come internet possa modificare sostanzialmente i rapporti umani a livello di massimi sistemi (cioè di corpo-anima, di ontologia, gnoseologia). Altro discorso può essere il sociologico, che è dove proliferano i contemporanei. Ma di fondo, a ben guardare, si ripresentano sempre logiche di stirpe platonica. In fondo mi sembra che stiamo dicendo un po' la stessa cosa!
Ernesto Graziani ha detto…
Mi inserisco in questa discussione senza la pretesa di dare neppure un abbozzo di risposta alle domande poste alla fine del post di Andrea né di elaborare dei rilievi così storiograficamente competenti come quello degli altri visitatori della Cittadella che si sono già espressi (in particolare, ho trovato molto interessante quanto ha scritto Luca Bozzato sulla concezione platonica). Mi propongo soltanto di introdurre qualche questione finora trascurata o di presentare questioni già in discussione ma da prospettive differenti e più congeniali al mio modo di pensare.

Lo dico così, bruscamente. A mio avviso una dato di cui oggi la filosofia non può non tenere conto è la dipendenza della mente dal corpo. Le varie facoltà mentali, e non solo la percezione, ovviamente, ma anche il pensiero, nelle sue varie forme, p.e. proposizionale ed immaginativo, e la memoria hanno una base fisica, il corpo. Questa dipendenza, che oggi è un dato – di per sé banale, oggi banale – e che ha avuto comunque delle anticipazione già nel pensiero occidentale antico – pensiamo, per esempio a Galeno, che considerava l'attività psichica come mero epifenomeno del fisiologico –, spinge ad ampliare la nostra prospettiva su una serie di questioni, rientranti nella più generale problematica del rapporto mente-corpo (tipiche della “tradizione” analitica e per lo più, per quanto a me noto, non trattate nella tradizione filosofica cosiddetta continentale o ermeneutica), e anche all'emergere di nuove questioni. Per fare un esempio: il problema del rapporto mente-corpo (che è stato posto, come è noto, esplicitamente per la prima volta da Descartes) in uno dei due suoi versanti fondamentali – e cioè come è possibile che da un corpo produca una mente? – oggi non può essere affrontato non tenendo conto delle funzioni svolte delle varie componenti del sistema nervoso, e perciò senza l'apporto della neuroscienza. E questo vale anche, p.e., per il problema dei qualia, della percezione, del pensiero. Al di là di questi ultimi temi, che a qualcuno potrebbero sembrare materia per specialisti di certi settori della filosofia, la dipendenza della mente dal corpo impone una seria critica di una certa visione dell'uomo come soggetto assoluto, sanz'altro dotato di quello che tradizionalmente è denominato libero arbitrio ed ergentesi al di sopra della natura animale grazie all'intelletto, magari con la I maiuscola. (Mi si perdonerà la stereotipizzazione e la caricatura dei caratteri della posizione a cui faccio riferimento: la caricatura è qui dovuta ad esigenza di sintesi e non a volontà di accentuare una posizione allo scopo di farla apparire banalmente falsa.) Faccio soltanto alcune più o meno banali constatazioni, traendo subito elementari conseguenze. La mente è un prodotto del sistema nervoso (anche se non solo di quello); la mente di una persona con un cervello affetto da certe patologie non funziona come quello di una persona con un cervello sano; anche gli animali hanno un sistema nervoso. Dunque: la mente, il suo sussistere e la modalità del suo funzionamento, dipendono da un organi corporei e dal loro stato, ed il possesso di questi “organi della mente” non è appannaggio esclusivo dell'uomo. Dico: l'uomo, con il suo corpo e con la sua mente, è un ente di natura, in particolare, un animale: la mente non lo eleva al di sopra degli altri animali. Senza dubbio l'uomo ha, nel complesso, capacità mentali superiori a quelle di tutti gli altri animali.
Ernesto Graziani (ancora) ha detto…
Ma, anche tralasciando il fatto che certe capacità sono in certi animali (p.e. la memoria spaziale in certi uccelli) enormemente più sviluppate che nell'uomo, è proprio la gradualità della perfezione delle capacità mentali nelle varie specie ad impedire di tracciare un tratto netto, al modo di Descartes o di Kant, tra uomo-soggetto e animale-oggetto-macchina. Pare anche che persino certi animali abbastanza distanti dall'uomo nella scala evolutiva, p.e. le galline, tradizionalmente considerate stupide, abbiano degli analoghi – non si sa se percettivi o altro, per ora non lo si può dire – di certi nostri concetti, per esempio il concetto di “centro” (faccio riferimento al testo Cervello di gallina di Giorgio Vallortigara, libro divulgativo ma preciso e ricchissimo di spunti per la riflessione filosofica). Quello che voglio dire, in breve, è questo: il corpo, ente di natura, è un limite fondamentale dell'uomo, ente di natura. L'uomo è sempre condizionato dal corpo, non solo dal cervello, ovviamente, ma da tutto il suo corpo (non ci sarebbe neppure bisogno di dirlo, per quanto la cosa è banalmente evidente). E non nel senso che la mente, o anima, è caduta in un corpo di cui sarà prigioniera fin quando non se ne separerà per godere di un'esistenza indipendente, bensì nel senso che il corpo è condizione del sussistere e dell'attività della mente. In questo modo, la mente è definitivamente legata al corpo e al suo stato, e cioè, p.e., alla sua salute: non si pensa bene con un mal di pancia, figuriamoci con un ictus. Con tutto ciò non voglio certo giungere alla conclusione che la mente sia mero epifenomeno della sua base fisica. Il problema del rapporto mente-corpo è, infatti, già da Descartes, duplice: vi è anche l'altro suo versante – come può la mente influire sul corpo? Il rapporto tra mente e corpo è dunque un rapporto di influenza reciproca, vi è una interazione. Sono profondamente convinto della falsità dell'epifenomenalismo, posizione che nega il potere causale della mente sul corpo, e che ritiene che l'influenza causale tra mente e corpo – ed è qui implicata, a mio avviso, una relazione di dipendenza ontologica – sia univoca, nel senso matematico del termine, cioè svolgentesi dal corpo verso la mente e non nel senso inverso. Anche rigettando una tesi estrema di questo tipo, a mio avviso semplicistica – ma, naturalmente, per rigettarla seriamente bisognerebbe affrontarla –, resta il bisogno di approfondire il discorso sulle modalità di questa influenza reciproca. La mente ha potere causale: il mondo percettivo, i miei pensieri, i miei sentimenti, i miei ricordi, i significati delle cose guidano la mia azione. È per questo che l'uomo – come anche gli animali – non è un meccanismo, o un puro meccanismo. Ma tutti gli elementi che ho elencato e che sono alla base del mio agire non sono i prodotti di funzioni di una sostanza immateriale che abita nel corpo, bensì del corpo. Cavolo, io penso di avere avere, o essere, un soggetto, “dotato” di identità, che percepisce, pensa, prova sentimenti, coglie significati agendo in base a questi: ma questo non è, a mio modo di vedere, dato chiaro, da cui passare subito ad altro: tutte queste facoltà, la soggettività a cui mettono capo, la relazione di dipendenza (biunivoca) con il corpo sono esse stesse, chiaramente, problema.
Ernesto Graziani (sì, ancora) ha detto…
Se prendiamo veramente consapevolezza dello stretto rapporto che la mente ha con il corpo, allora estenderemo la nostra considerazione – ci sono già da un po' degli studi in questo senso – anche alla sfera etica, chiedendoci: quale ruolo ha il corpo nella nostra vita morale? Non solo nel senso di: che valore ha il corpo? Ma anche ed innanzitutto: l'etica ha (anche) una radice fisiologica? Qui non si deve credere che il compito di indagare la questione sia da abbandorare tout court alla neuroscienza. Qui si tratta una riflessione, che può e deve servirsi dell'apporto delle scienze, ma che resta filosofica e si apre ad una considerazione generale della natura organica, ad una metafisica della natura. A mio avviso, la questione del finalismo non è una questione morta. Comunque, con ciò non voglio assolutamente dire che la filsofia – morale, in questo caso – debba necessariamente ricorrere all'apporto delle scienze in tutte le sue questioni. A mio avviso esistono diversi livelli di profondità a cui la soluzione di un certo problema od insieme di problemi può giungere. Il piano fenomenologico è il primo piano e la soluzione di certi probelmi filosofici su questo piano darebbe, e in certi casi dà, già molta soddifazione.
Il Bozz ha detto…
Quello che volevo tentare di indicare è appunto che non è proprio vero che il linguaggio di Platone ci impedisce, nel senso di una forza stringente che ci tiene lontano da, uscire dagli schemi dualisti, e che questi schemi dualisti da cui, sembra con la forza di una gabbia d'acciaio, pare che non si possa scappare, sono probabilmente il frutto di un irrigidimento in un senso determinato di quello che si può trovare nell'opera platonica.

Ma ecco, qui sta il punto. Visto che è dimostrato (da studiosi eminenti, non da me che sono solo un povero ambasciatore: Taylor, Burnet, Guthrie, Vlastos, Toth, Galimberti solo per citarne alcuni) che dagli schemi dualistici cui ci ha abituati la vulgata di Platone si può e si deve uscire, quel che resta da fare è duplice: da un lato, andare più a fondo nell'indagine della complessità del rapporto psychè-soma in Platone; dall'altro, interrogare la contemporaneità alla ricerca, archeologica se vogliamo, dei motivi che hanno indotto storicamente la sclerotizzazione del linguaggio (si chiami metafisico, si chiami neoscientifico) del dualismo a dispetto del fatto che nell'opera di Platone sono presenti altrettanti richiami espliciti alla cura del corpo come parte integrante della cura dell'uomo in quanto tale, addirittura come primo gradino della paideia. E ricordiamo che per Platone un uomo ben educato è al contempo un buon cittadino di un buono stato, è temperante e ha il controllo di sè e delle sue relazioni sociali, è giusto e sa dominare i suoi appetiti in eccesso: perchè, si badi, il problema non sono gli appetiti, bensì il loro eccesso, il loro non ricondursi a ragione. (E già questo scardina il dualismo mente-corpo, a mio avviso). E in tutto questo l'uomo nella sua totalità, come persona umana incarnata in un corpo vivente che deve curare, e dotata di una facoltà razionale che gli permette di guidare in maniera virtuosa lo sviluppo e del proprio corpo e della propria stessa facoltà razionale, la quale inevitabilmente conduce alla temperanza, alla saggezza e quindi alla virtù, è felice per aver raggiunto la pienezza della sua vita.

Le implicazioni morali di un recupero dell'unità della persona umana in questo senso mi sembrano palesi, e in ogni caso note ai più soprattutto sulla scia della moda recente del personalismo ontologico, il quale mi pare perciò un tentativo di superare il dualismo "metafisico" da parte di una tradizione culturale che lo ha inaugurato, mentre la risposta era già sotto gli occhi e infatti Freud e Lacan, tra gli altri, l'avevano compresa appieno.

Credo che solo facendo un lavoro analogo a doppio binario, sul dualismo corpo-anima nel luogo del suo "nascere" e sulla contemporaneità come luogo della sua esasperazione/tentativo di conciliazione, ne possiamo ricavare un principio di indagine morale, quale auspicava Andrea in chiusura del suo post, ed è normale che il mio intervento suoni parziale, essendomi indirizzato soltanto ad un corno del problema. Quello forse di maggior interesse, resta ancora campo di indagine aperta. Potrebbe essere un bel lavoro, magari da dedicare ad un numero di Post? (Faccio pubblicità gratuita ^^)
sgubonius ha detto…
Che la mente sia epifenomeno o l'inverso non è tendenzialmente un problema per il filosofo, lo è per il naturalista. L'idealismo arriva infine a dire semplicemente che tutto il reale è razionale per condizione di possibilità: il corpo stesso esiste solo nella percezione e quindi nel filtro delle forme dell'intelletto. L'eredità del platonismo sta qui.

E lo stesso tipo di vincolo gnoseologico ed ontologico insieme è quello che vincola linguisticamente all'interno del mondo "metafisico" (si pensi ad Heidegger ma anche a Wittgenstein). L'articolazione di ogni pensiero è già un dualismo forzato (soggetto e
predicato, eredi a loro volta del sostrato e dell'attributo), come direbbe Derrida la differenza sta già all'origine. In Platone trovi già la messa in discussione di questo ma non trovi qualcosa che esca totalmente dalla logica dualista (che si vede soprattutto appunto nelle suddivisioni del Sofista fino ai paradossi di essere e non-essere del Parmenide). Non lo trovi in nessun autore, non si dà, proprio perché sarebbe fuori dalla condizione di possibilità. E con questo vedi che la gabbia è (o caverna) è piuttosto la sabbia mobile del barone di Munchausen (da cui si pretende di uscire tirandosi per i propri capelli). Non si può prendere la questione come una qualunque fra le tante, a cui applicare magari il metodo, il metodo (ed l cogito in descartes non è in germe altro da quanto detto sopra) si fonda invece su questa questione.

Per questo propenderei per un tipo di lavorio "dall'interno", per una riaffermazione del corpo che si concepisca come un "differente all'origine" dalla res cogitans, senza però che ci siano gerarchie fra i due (l'unica cosa che li trascende è la Differenza stessa). Il mondo non sembra essere altro che la risonanza fra le due serie, chiamale corpo e anima, sostrato e attributo, soggetto e verbo, extensa e cogitans, fenomeno e noumeno, rappresentazione e volontà. Qualcuno più astuto ha voluto chiamare Sostanza direttamente la risonanza stessa. Questo è l'unico monismo che si dia (ma si dà appunto in via negativa in qualche maniera, pur essendo un negativo che non è né opposizione né mancanza, il che lo farebbe rientrare nella logica binaria, Hegel docet, da cui invece deve liberarsi).
Davide Sisto ha detto…
Ciao Andrea,

per motivi di tempo non sono riuscito a leggere tutti i commenti.
Il tema è molto interessante e, personalmente, lo ricollego soprattutto a Schelling e alla filosofia romantica (non idealistica, bada bene!), là dove si sviluppa una visione "spirituale" della natura e quindi del corpo, in virtù del totale rifiuto del dualismo cartesiano e del recupero di una concezione tripartita dell'uomo. Anima, spirito e corpo: l'anima come elemento che "veicola" lo spirito verso il corpo e il corpo verso lo spirito. Ai tempi ci si ricollegava al concetto tedesco di Sinnbild (senso+immagine,cioè spirito+natura tenuti insieme dal "nesso" invisibile dell'anima - su 'ste cose in Italia ha scritto molto Tonino Griffero). Quindi ripresa delle antiche dottrine teosofiche del "corpo spirituale" e visione meno frammentata del rapporto vita/morte. Nel Novecento trovo interessanti soprattutto gli allievi di Heidegger (lo stesso Martin comunque è affine a queste tematiche): Jonas, Uexkull, Juenger, Anders, ciascuno dei quali riprende il tema del corpo/natura secondo una visione anti-dualistica e anti-meccanicistica da punti di vista differenti (come dimostrano le singole bibliografie degli autori citati). Il recupero del tema del corpo in chiave anti-meccanicistica e anti-dualistica è al centro dell'attenzione degli stessi movimenti ecologici, per ovvie ragioni. Questa sommariamente è la mia esperienza filosofica a riguardo! :-)
Amici grazie mille per i lunghi e ragionati contributi, che celano dietro di loro tanta stima e cura nei confronti della Cittadella e di questo nostro argomento. Tuttavia il carico dei commenti è davvero importante allora mi capirete se attenderò il ritorno la prossima settimana per rispondervi: potrò stampare i commenti, leggerli con calma e riflettere sui vosri rilievi con la calma e l'accuratezza che meritano. Grazie ancora.
Anonimo ha detto…
Una precisazione,anche se con un ritardo di qualche anno rispetto alla discussione di cui sopra, circa Paolo di Tarso. Esiste un Paolo cattolico ed uno letto secondo l’esegesi extra-ecclesiastica di Lutero. Paolo apparteneva al mondo della koiné ebraico-ellenistica e come tale accostava i filosofi greci – si veda il suo discorso in Atene – ma sempre partendo dalla sua radice ebraica e quindi nella prospettiva della “bontà” di tutto l’esistente, spirituale e materiale, in quanto creazione di Dio. Compreso il corpo umano. Il Genesi è chiaro in tal senso e Paolo, zelante fariseo, non poteva certo sfuggire a tale retaggio tradizionale. Anche il Paolo cristiano, dopo la folgorazione mistica sulla via di Damasco, non ha affatto un atteggiamento anti-corporeo, come ai suoi tempi era tipico di tutte le variegate tendenze “gnostiche” per eredità più o meno latente del platonismo. Proprio nel suo discorso ateniese con i filosofi la “pietra dello scandalo” è la affermazione di Paolo sulla resurrezione dei corpi. Si ricordi poi, per valutare quanto positivamente Paolo considera il corpo, che per l'Apostolo delle genti la corporeità diventa icona della stessa ecclesialicità. Da allora la Chiesa si è sempre considerata "Corpo Mistico di Cristo". Alla luce di tutto questo, il Paolo delle lettere, nelle quali spesso egli sembra asserire un conflitto tra spirito e carne, non è affatto un seguace più o meno consapevole di quelle tendenze gnostico-platoniche di cui si diceva. La “carne” opposta allo “spirito” non è per Paolo un riferimento al corpo in senso ontologico ma al corpo in quanto, dopo l’Eden, soggetto al “peccato”. Da qui anche l’errore di Lutero che, troppo calcando questo concetto nel senso di fare del peccato qualcosa che avrebbe totalmente corrotto (e non solo “ferito”) l’umana natura, ha finito per elaborare una antropologia negativa e totalmente pessimista, accreditandola mediante una esegesi maldestra del pensiero paolino. Il Tridentino ha dovuto, infatti, contro Lutero, ribadire che Paolo non ha una concezione negativa della corporeità in quanto creatura e che l’opposizione dei sensi allo spirito è, in Paolo, non un dato connaturato al corpo ma un derivato della disarmonia introdotta nell’uomo dal peccato d’origine. Evidentemente Nietzsche, tedesco di padre luterano, leggeva Paolo con gli occhiali di Lutero. Ma, questo, non è il vero Paolo.
Saluti
Luigi Copertino