Come pensare "il corpo" nella società contemporanea?
Il tema del corpo nel neoplatonismo antico è complesso e rimanda a tutta una serie di questioni ontologiche e gnoseologiche; al problema di come l'anima possa essersi legata al corpo e soprattutto a cosa intendere per corpo e per anima. D'altronde possiamo facilmente richiamare il famoso incipit delle Enneadi, dove Porfirio ci racconta, forse un po' calcando la mano, come il suo maestro Plotino «si vergognava di essere in un corpo». Non bisogna tuttavia dimenticare che questa concezione del corpo si fonda sugli antichi testi di Platone e in particolare su quel Simposio che determinò le sorti del platonismo successivo e che ricorre continuamente non solo nelle opere del cigno del paganesimo, Plotino, ma, appunto, in tutta la scuola neoplatonica e potranno poi, attraverso S.Ambrogio, Mario Vittorino e Agostino, penetrare anche nel nascente mondo cristiano.
Insomma, ci sono testi e concezioni che formano la mentalità di un'epoca intera e così ne determinano i costumi, l'etica e i giudizi morali; e per quanto riguarda il corpo possiamo osservare lungo la storia un cambiamento radicale proprio in quanto giudizi e concezioni; un mutamento di prospettiva che sembra segnare non soltanto la vita di un ristretto gruppo di studiosi, come spesso accade nella storia del pensiero, ma tutta una Weltanschauung fino alla volgare opinione pubblica. Nell'anno di grazia 2010, un'idea del corpo come quella che i platonici hanno espresso nei loro testi non può che apparire stramba e persino assurda. Quelle dottrine hanno percorso fino ad ora molta strada e oggi ne percepiamo più che altro un'immagine mediata dal cristianesimo medievale. Difatti quei testi subirono una prima rilettura proprio nei primi anni di vita del cristianesimo, a cui, grazie alla sua dottrina della redenzione dei corpi, spetta poi il ruolo di riscattare la "morta" materia platonica - ammesso che sia realmente "morta" - e ridare così una nuova sistemazione al corpo all'interno dell'universo concettuale e valoriale della nuova società medievale. Quello a cui stiamo facendo riferimento è dunque un insieme complesso di teorie e idee sul corpo che hanno avuto la meglio per circa un millennio e mezzo, finchè cambiarono nuovamente i presupposti della società: nel XXI secolo, di quelle idee non rimane pressocchè nulla se non una impietosa caricatura che sopravvive, più distorta di qualche anno fa, nell'immaginario comune.
Questo breve excursus mi consente ora di porre il problema che più mi interessa discutere, ovvero l'immagine del corpo nella società contemporanea: quale valore che attribuiamo al corpo e quali testi o quali modelli possono codificare i nostri comportamenti, che definiamo etici, e i nostri giudizi in merito ai pensieri e alle azioni proprie e altrui. Mi affido alle vostre analisi, da cui poter partire al fine di una riflessione più articolata e condivisa; chiaramente non si tratterà di offrire un giudizio negativo o positivo sulla nostra società, dato che di queste tematiche La Cittadella è colma: si tratterà di pensare il corpo nel mondo attuale facendo riferimento alle questioni appena poste; oppure, tornando ancora in medias res, come nell'esempio del Simposio, di quali modelli e testi siamo figli e cosa ci ha spinto a questo tipo di valuzione? Ancora, esiste una concezione univoca o una tendenza più forte delle altre - che farebbe parlare, appunto, di visione del mondo della società attuale - oppure vi è soltanto uno spezzatino di vecchie culture, dei relitti di vecchi velieri, oramai spiaggiati all'alba di questo nuovo millennio? A quali stratificazioni, quali dossi e quali fiumi carsici dobbiamo attraversare per ottenere un quadro il più possibile soddisfacente?
Insomma, ci sono testi e concezioni che formano la mentalità di un'epoca intera e così ne determinano i costumi, l'etica e i giudizi morali; e per quanto riguarda il corpo possiamo osservare lungo la storia un cambiamento radicale proprio in quanto giudizi e concezioni; un mutamento di prospettiva che sembra segnare non soltanto la vita di un ristretto gruppo di studiosi, come spesso accade nella storia del pensiero, ma tutta una Weltanschauung fino alla volgare opinione pubblica. Nell'anno di grazia 2010, un'idea del corpo come quella che i platonici hanno espresso nei loro testi non può che apparire stramba e persino assurda. Quelle dottrine hanno percorso fino ad ora molta strada e oggi ne percepiamo più che altro un'immagine mediata dal cristianesimo medievale. Difatti quei testi subirono una prima rilettura proprio nei primi anni di vita del cristianesimo, a cui, grazie alla sua dottrina della redenzione dei corpi, spetta poi il ruolo di riscattare la "morta" materia platonica - ammesso che sia realmente "morta" - e ridare così una nuova sistemazione al corpo all'interno dell'universo concettuale e valoriale della nuova società medievale. Quello a cui stiamo facendo riferimento è dunque un insieme complesso di teorie e idee sul corpo che hanno avuto la meglio per circa un millennio e mezzo, finchè cambiarono nuovamente i presupposti della società: nel XXI secolo, di quelle idee non rimane pressocchè nulla se non una impietosa caricatura che sopravvive, più distorta di qualche anno fa, nell'immaginario comune.
Questo breve excursus mi consente ora di porre il problema che più mi interessa discutere, ovvero l'immagine del corpo nella società contemporanea: quale valore che attribuiamo al corpo e quali testi o quali modelli possono codificare i nostri comportamenti, che definiamo etici, e i nostri giudizi in merito ai pensieri e alle azioni proprie e altrui. Mi affido alle vostre analisi, da cui poter partire al fine di una riflessione più articolata e condivisa; chiaramente non si tratterà di offrire un giudizio negativo o positivo sulla nostra società, dato che di queste tematiche La Cittadella è colma: si tratterà di pensare il corpo nel mondo attuale facendo riferimento alle questioni appena poste; oppure, tornando ancora in medias res, come nell'esempio del Simposio, di quali modelli e testi siamo figli e cosa ci ha spinto a questo tipo di valuzione? Ancora, esiste una concezione univoca o una tendenza più forte delle altre - che farebbe parlare, appunto, di visione del mondo della società attuale - oppure vi è soltanto uno spezzatino di vecchie culture, dei relitti di vecchi velieri, oramai spiaggiati all'alba di questo nuovo millennio? A quali stratificazioni, quali dossi e quali fiumi carsici dobbiamo attraversare per ottenere un quadro il più possibile soddisfacente?
Commenti
Evitando i discorsi banali sul decadimento dei costumi, resta un problema enorme di dare un senso, una forma nuova, a questa carne (vengono in mente i quadri di Bacon), diventare, per continuare il discorso nietzschiano, plasmatori e creatori in essa (non fuori, in una kenosis azzardata) e non schiavi delle sue leggi d'inerzia o di pesantezza.
Certamente detto così vuol dire tutto e niente, bisognerebbe radicare poi meglio il discorso per vederne l'integrazione con l'estetica, l'etica, la questione della verità, dell'ermeneutica, tecnica, eccetera.
La storia (del concetto) ci insegna che partendo da questo dualismo stretto si arriva inevitabilmente ad abbandonare la carne a se stessa (tralascio al momento le condizioni, ancora più strette, necessarie perché funzioni la sintesi hegeliana) come mero decadimento ed escrescenza superflua (e intralciante) dello spirito o della volontà (o banalmente dell'Uno) che nel migliore dei casi fa "giustificata". Ci vorrebbe invece una logica diversa, per la quale non si dà forma senza materia, non c'è verbo senza carne, non c'è Uno senza articolazione interna nel due (ricorderai il paradosso del Parmenide platonico: se l'Uno è, si sdoppia immediatamente in Uno ed Essere).
La filosofia è stata ed è ossessionata da questo problema, che è un problema in ultima analisi "del corpo" (nel puro spirito non si porrebbe il problema, ed è poi questa la premessa hegeliana) e questo Nietzsche ha capito volendo riportare l'attenzione sul corpo, "ribaltando" Platone, ma non per una nuova gerarchia (alla Feuerbach o Marx) dello strapotere della materia. Le gerarchie vengono dopo, pensa a Spinoza per avere il modello più semplice dei rapporti fra l'Uno e gli attributi (la gerarchia può iniziare nei modi per gradi di potenza).
Da qui in poi il lavoro è in qualche modo ancora in corso, tutto il novecento (sulle basi ottocentesche di Nietzsche, di Mallarmé, ecc) ha lavorato su questo (Bergson per esempio, ma perfino Heidegger ha cercato di pensare nell'ereignis il rapporto dell'essere nell'esserci). Idem le attenzioni che nel cristianesimo, dopo l'idealismo, ritornano alla sua vera peculiarità, cioè l'incarnazione. Si tratta comunque di cominciare a non identificare il trascendente nella parte spirituale (per cui coincidono sempre vero, bello e buono) ma vedere come esso possa solo emergere nel composto immanente di corpo e anima (riprendo Spinoza che è chiarissimo: la Sostanza-Uno trascende in qualche modo il singolo attributo, e anche i due attributi che ci sono concessi, pur esprimendosi, senza gerarchie, in essi).
E' nell'epistolario paolino, infatti, che va cercato il primo germe di quell'anticorporeismo poi largamente ereditato da una certa coscienza infelice del cristianesimo medioevale.
Scrive Paolo ai Romani:
"So infatti che non il bene abita in me, cioè nella mia carne, (...) vedo nelle mie membra un'altra legge, che lotta contro la legge della mia mente e che mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? (...) con la carne (sono) servo della legge del peccato.”
Pauli Epistula ad Romanos 7, 13-25.
Questa teologia del corpo è totalmente estranea al Vecchio Testamento, e mi pare che scarsa eco trovi anche nei Vangeli, a meno che non si legga in questa chiave l'invito di Cristo a "cavare e gettar via da sé l'occhio che dà scandalo, perché è meglio entrare nella gloria di Dio con un occhio solo che con entrambi essere gettato nella Geenna".
Mi riservo di integrare più tardi con qualche altra considerazione. Per il momento volevo solo cercare di circoscrivere bene il punto in cui è avvenuta la saldatura tra la svalutazione del corpo di marca neoplatonica e quell'antropologia cristiana che abbiamo in larga misura ereditato.
Sul corpo e i nuovi media hanno scritto belle pagine anche i “classici” Baudrillard e McLuhan; ma che tecnologia ed esautorazione del corpo vadano di pari passo, lo smentiscono ricerche e scoperte della robotica (intelligenza comparata), della nanorobotica e della simulazione integrale: un nome su tutti è Marvin Minsky, forse il padre fondatore di questa branca della scienza e anche lui lavora all’MIT. Filosofo di formazione, anche la figlia è filosofa e si occupa di percezione aptica e di propriocezione, ovvero delle sensazioni legate al tatto e del nostro collocarci fisicamente nel mondo attraverso sensi diversi dalla vista (ovvie le applicazioni alle macchine, dai robot chirurgo ai controller dei videogiochi; riecheggia Heidegger?).
Intervengo su gentile segnalazione di Andrea del suo post, che ritengo una questione primaria e un ambito di ricerca esploratissimo al giorno d’oggi, e di importante ricaduta scientifica (si pensi solo alle applicazioni dell’intelligenza comparata/artificiale, alla simulazione integrale e alla robotica, appena citate). Ma il corpo è da sempre stato oggetto della filosofia: soggetto di desiderio, ostacolo per la saggezza, luogo della passione autodistruttiva, meccanismo, oggetto pulsionale, veicolo del nostro essere al mondo, punto di forza delle lotte tra sapere e potere, evanescente di fronte alle nuove tecnologie… Per quanto mi riguarda, penso che la concezione del corpo più penetrante, e con la quale mi trovo più d’accordo, sia quella espressa bene da due autori contemporanei quali il prof. Umberto Galimberti (che ha fatto dell’indagine sul corpo e sulla sua declinazione nella storia del pensiero la ragione della propria carriera) e, per quanto giovane, Giulia Sissa (ora insegna all’UCL: nota per aver scritto “Il piacere e il male. Sesso, droga e filosofia.”, dal quale Galimberti ha operato il famoso plagio in uno dei suoi ultimi libri). La posizione particolare dei due autori riguardo al trattamento del corpo in Platone merita di essere sintetizzata, perché centra secondo me un punto focale, sfuggito all’attenzione della vulgata secondo cui Platone disprezzerebbe il corpo tout court. Secondo questi due autori, Platone disprezza il corpo perché non è uno strumento affidabile di conoscenza. Mi distacco tuttavia dalla loro interpretazione, tuttavia, in quanto essi lasciano intendere che Platone, pur giustificatamente, svaluti il corpo ancora tout court: io invece sono convinto, confortato da passi platonici generalmente poco letti, che ci siano delle prove evidenti nei Dialoghi che Platone incoraggi invece la cura del corpo.
Ora, è innegabile che esista un dualismo in Platone. Ma questo dualismo è funzionale alla costruzione dell’edificio della scienza che Platone aveva in mente. Questa idea mi balzò in mente quando, ad una lezione di filosofia per non filosofi, il mio amico relatore non seppe rispondere alla domanda di un astante: “Ma se per Platone il corpo è carcere dell’anima, cosa gli impedisce di suicidarsi?” Mi resi conto che la riposta alla domanda era più semplice del previsto. Prendiamo Lucrezio: la sua opera di traduzione di Epicuro fu altamente originale, perché dovette inventare e codificare nuovi termini filosofici per dare una tradizione filosofica originale e rispettabile alla latinità. Una cosa analoga succede per Platone, ma più difficoltosa in quanto, essendo il primo vero scienziato, si trovava a dover inventarsi da zero un linguaggio “scientifico”. Per far capire la portata rivoluzionaria che, nella fondazione di quella che noi attualmente chiamiamo “scienza”, operò il pensiero matematico, Platone aveva a disposizione il linguaggio dei miti orfici. Secondo questo linguaggio, realmente il corpo è carcere dell’anima. Platone si serve in maniera figurata di questo linguaggio, per significare la portata sconvolgente che la matematica (che non è pratica del calcolo, ma scienza del calcolo; che non si fa con riga e compasso, ma coi logoi), sapere che non è come giocare a girare i sassi, ma un qualcosa che può mutare l’anima da un giorno che è come una notte, a un vero giorno (Repubblica, 546?).
La scienza promette, secondo Platone, verità indipendenti dalle contingenze fattuali (si veda la insistente distinzione tra matematica come calcolo, e geometria come scienza del calcolo e dei rapporti). Ma per essere in grado di accedere a tali verità, si deve cercare, per quanto possibile, di essere simili a loro: spogliarsi della soggettività e della passioni, che hanno sede nel corpo (anche fisicamente: si veda la localizzazione dell’anima emotiva e appetitiva). La scienza è attività eminentemente noetica.
D’altronde, ciò ha ricadute immediatamente pratiche: visto che l’uomo saggio/virtuoso è anche l’uomo massimamente felice. Il tema è poi confortato dalla tradizione ellenistica successiva, che si impernia sul rifiuto delle sensazioni del corpo come strumento di conoscenza, e sul controllo delle passioni per raggiungere al saggezza. A mio avviso, Platone è stato molto più raffinato.
Spero di non aver annoiato con la lunghezza,
Luca
Luca, analizzi con precisione il tema del corpo in Platone e sono d'accordo con te quando ne sottolinei la funzione fortemente indirizzata verso la filosofia teoretica, tuttavia sarebbe forse meglio non fossilizzarsi sull'analisi dei testi platonici perchè potrebbe farci perdere il focus dell'oggi. Possiamo sfruttare però quanto scrivi in questo senso: se è vero che anche in Platone il tema delle corporeità non è trattato in maniera rigidamente dualista, questo significa che le possibili immagini del corpo vengono ancora una volta a moltiplicarsi.
Ecco perchè Andrea Sangiacomo mi convince facilmente: sì è vero, di paradigmi ne esistono tanti ed è proprio quanto sottolineavo anch'io in chiusura dell'intervento. Ma sarebbe interessante capire se:
i) se, in che forma e attraverso quali dinamiche questi paradigmi sono presenti nella società contemporanea; E quindi, se hanno ancora valore, essi possono essere pensati come sghembi rispetto alla tradizione neoplatonico-cristiana (su questo tema possiamo assimilarle anche in virtù di quanto scrive Tore Obinu), oppure se tutte quelle concezioni ne siano in qualche modo derivate e connesse; e se ne reggono tutt'oggi la sfida.
ii) se i paradigmi hanno dato vita ad un qualcosa di diverso - ovvero ad una nuova concezione dominante (si pensi ad esempio al mondo della tecnica heideggeriano) oppure se li rintracciamo oggi come tanti relitti di vecchie navi abbandonate sulla spiaggia (pensate ad una lettura del contemporaneo come quella di MacIntyre)
iii) se sono presenti nel mondo attuale e se ne hanno o meno formato una visione complessiva, allora chiediamoci se hanno realmente trasformato la società (magari, liquida?) o se in realtà la società è sempre la stessa; nel primo caso, verso cosa stiamo andando a finire?
Non so cosa ne pensiate voi in merito, cerco solo di stimolare la discussione scrivendo di getto quanto mi torna in mente. Dopotutto sono questioni che i ronzano in testa da un po' e a cui bene o male dovevo dare una forma.
Riguardo al tema dell'intelligenza artificiale, MIT etc., vi faccio una battuta: secondo me Cartesio se la sta ridendo della grossa. Dopo secoli in cui il cruccio più grosso sembrava quello di risolvere il dualismo (ancora!) cartesiano, da Spinoza a Kant, ad Hegel e Schelling, oggi grazie alla tecnologia stiamo andiamo proprio verso quella esautorazione del corpo, come scrive Luca Bozzato. Cosa siamo noi in internet, se non una serie di sostante pensanti? In una recente intervista al gruppo ASIA, Giovanni Reale notava proprio questo elemento, mettendoci in guardia su quanto stiamo adesso facendo noi stessi: nel dialogo via internet si perde il rapporto dell'anima con l'anima, ovvero quanto di più alto e fecondo avviene nel dialogo; si perde, in definitiva, tutta quella serie di elementi che non costituiscono una mera dimensione corporea, ma riguardano, in qualche modo, l'anima, alla cui cura è diretto il dialogo stesso. Ecco che ritornano i vecchi temi: l'anima, il corpo e il loro rapporto. Andrea S., in questo senso capirai perchè a mio avviso anche nella contemporaneità la sfida del neoplatonismo è ancora attualissima e irrisolta. Attendo vostri pareri, benchè i temi trattati siano davvero tanti e forse troppo ampli.
Sacrosante le specificazioni su Paolo di Tarso come plasmatore del "platonismo del popolo" (anche Nietzsche ha spesso visto in Paolo il padre del nichilismo cristiano, contro un "immoralismo" di fondo di Cristo) e quelle su Platone.
Avevo citato sopra il paradosso del Parmenide platonico per sondare come già in Platone la separazione (krisis) fra il mondo ideale delle unità e il mare del molteplice non sia sempre così semplicistica. E' il Platone della conoscenza teoretica come mera astrazione dal sensibile che quindi va riconsiderato, quello che io sopra avevo sintetizzando dicendo che non si può identificare il trascendente col semplice (aplous) e quindi col vero/buono/bello.
Andrea, riguardo l'esulare dall'ottica occidentale io sono sempre dell'idea che si debba lavorare dall'interno (ne parlammo già riguardo al metodo "negativo" qualche tempo fa). Che poi mi pare sia proprio questa la "fedeltà" alla propria inevitabile limitatezza che diventa il rapporto col corpo, contro l'ideale di cui parlavo sopra di poter esulare dal punto di vista per andare nell'iperuranio oggettivo incorporeo e impersonale. C'è una circolarità, ed è un gran bene che ci sia, non vorrei divagare ma l'eterno ritorno in Nietzsche viene proprio per selezionare ciò che resiste alla prova della circolarità (che è poi quella dell'immanenza).
Non vedo comunque una differenza effettiva nel modo moderno di pensare il corpo rispetto a quello medioevale o arcaico. Svalutato era prima e svalutato lo è adesso (al massimo ora gli diamo un prezzo, che non è un valore). I paradigmi sono sempre gli stessi, e penso che queste siano questioni talmente radicali che non siano nemmeno soggetti ad evoluzione storica (piuttosto l'evolevere storico vi gira intorno come perno).
D'altronde, la mia precisazione non manca di suggerimenti etici: il mio suggerimento etico è esattamente di recuperare l'unità mente-corpo che erroneamente di crede Platone abbia scisso, e tornare a considerare un'etica del desiderio (senza la quale, non ci può essere a mio avviso etica della responsabilità).
Per quanto riguarda internet, ecco che ritorna la precisazione platonica: si perde il dialogo anima con anima solo se con "anima" intendiamo la metonimia di "uomo", e con "uomo" intendiamo la sua psiche e il suo corpo. Allora sì, poiché si perde il corpo, si perde anche qualcosa del vero potere della parola (la quale è una grande dominatrice, con un così piccolo corpo…). Una lettura dualistica di questo problema sarebbe a mio avviso insensata: se anima e corpo sono due cose distinte, la comunicazione in rete non inibisce il dialogo anima con anima, ma anzi lo potenzia, perché non subisce i condizionamenti del corpo, e del volto, di noi e degli altri.
Un saluto! :)
Luca
Identicamente non credo che un mero mezzo tecnico come internet possa modificare sostanzialmente i rapporti umani a livello di massimi sistemi (cioè di corpo-anima, di ontologia, gnoseologia). Altro discorso può essere il sociologico, che è dove proliferano i contemporanei. Ma di fondo, a ben guardare, si ripresentano sempre logiche di stirpe platonica. In fondo mi sembra che stiamo dicendo un po' la stessa cosa!
Lo dico così, bruscamente. A mio avviso una dato di cui oggi la filosofia non può non tenere conto è la dipendenza della mente dal corpo. Le varie facoltà mentali, e non solo la percezione, ovviamente, ma anche il pensiero, nelle sue varie forme, p.e. proposizionale ed immaginativo, e la memoria hanno una base fisica, il corpo. Questa dipendenza, che oggi è un dato – di per sé banale, oggi banale – e che ha avuto comunque delle anticipazione già nel pensiero occidentale antico – pensiamo, per esempio a Galeno, che considerava l'attività psichica come mero epifenomeno del fisiologico –, spinge ad ampliare la nostra prospettiva su una serie di questioni, rientranti nella più generale problematica del rapporto mente-corpo (tipiche della “tradizione” analitica e per lo più, per quanto a me noto, non trattate nella tradizione filosofica cosiddetta continentale o ermeneutica), e anche all'emergere di nuove questioni. Per fare un esempio: il problema del rapporto mente-corpo (che è stato posto, come è noto, esplicitamente per la prima volta da Descartes) in uno dei due suoi versanti fondamentali – e cioè come è possibile che da un corpo produca una mente? – oggi non può essere affrontato non tenendo conto delle funzioni svolte delle varie componenti del sistema nervoso, e perciò senza l'apporto della neuroscienza. E questo vale anche, p.e., per il problema dei qualia, della percezione, del pensiero. Al di là di questi ultimi temi, che a qualcuno potrebbero sembrare materia per specialisti di certi settori della filosofia, la dipendenza della mente dal corpo impone una seria critica di una certa visione dell'uomo come soggetto assoluto, sanz'altro dotato di quello che tradizionalmente è denominato libero arbitrio ed ergentesi al di sopra della natura animale grazie all'intelletto, magari con la I maiuscola. (Mi si perdonerà la stereotipizzazione e la caricatura dei caratteri della posizione a cui faccio riferimento: la caricatura è qui dovuta ad esigenza di sintesi e non a volontà di accentuare una posizione allo scopo di farla apparire banalmente falsa.) Faccio soltanto alcune più o meno banali constatazioni, traendo subito elementari conseguenze. La mente è un prodotto del sistema nervoso (anche se non solo di quello); la mente di una persona con un cervello affetto da certe patologie non funziona come quello di una persona con un cervello sano; anche gli animali hanno un sistema nervoso. Dunque: la mente, il suo sussistere e la modalità del suo funzionamento, dipendono da un organi corporei e dal loro stato, ed il possesso di questi “organi della mente” non è appannaggio esclusivo dell'uomo. Dico: l'uomo, con il suo corpo e con la sua mente, è un ente di natura, in particolare, un animale: la mente non lo eleva al di sopra degli altri animali. Senza dubbio l'uomo ha, nel complesso, capacità mentali superiori a quelle di tutti gli altri animali.
Ma ecco, qui sta il punto. Visto che è dimostrato (da studiosi eminenti, non da me che sono solo un povero ambasciatore: Taylor, Burnet, Guthrie, Vlastos, Toth, Galimberti solo per citarne alcuni) che dagli schemi dualistici cui ci ha abituati la vulgata di Platone si può e si deve uscire, quel che resta da fare è duplice: da un lato, andare più a fondo nell'indagine della complessità del rapporto psychè-soma in Platone; dall'altro, interrogare la contemporaneità alla ricerca, archeologica se vogliamo, dei motivi che hanno indotto storicamente la sclerotizzazione del linguaggio (si chiami metafisico, si chiami neoscientifico) del dualismo a dispetto del fatto che nell'opera di Platone sono presenti altrettanti richiami espliciti alla cura del corpo come parte integrante della cura dell'uomo in quanto tale, addirittura come primo gradino della paideia. E ricordiamo che per Platone un uomo ben educato è al contempo un buon cittadino di un buono stato, è temperante e ha il controllo di sè e delle sue relazioni sociali, è giusto e sa dominare i suoi appetiti in eccesso: perchè, si badi, il problema non sono gli appetiti, bensì il loro eccesso, il loro non ricondursi a ragione. (E già questo scardina il dualismo mente-corpo, a mio avviso). E in tutto questo l'uomo nella sua totalità, come persona umana incarnata in un corpo vivente che deve curare, e dotata di una facoltà razionale che gli permette di guidare in maniera virtuosa lo sviluppo e del proprio corpo e della propria stessa facoltà razionale, la quale inevitabilmente conduce alla temperanza, alla saggezza e quindi alla virtù, è felice per aver raggiunto la pienezza della sua vita.
Le implicazioni morali di un recupero dell'unità della persona umana in questo senso mi sembrano palesi, e in ogni caso note ai più soprattutto sulla scia della moda recente del personalismo ontologico, il quale mi pare perciò un tentativo di superare il dualismo "metafisico" da parte di una tradizione culturale che lo ha inaugurato, mentre la risposta era già sotto gli occhi e infatti Freud e Lacan, tra gli altri, l'avevano compresa appieno.
Credo che solo facendo un lavoro analogo a doppio binario, sul dualismo corpo-anima nel luogo del suo "nascere" e sulla contemporaneità come luogo della sua esasperazione/tentativo di conciliazione, ne possiamo ricavare un principio di indagine morale, quale auspicava Andrea in chiusura del suo post, ed è normale che il mio intervento suoni parziale, essendomi indirizzato soltanto ad un corno del problema. Quello forse di maggior interesse, resta ancora campo di indagine aperta. Potrebbe essere un bel lavoro, magari da dedicare ad un numero di Post? (Faccio pubblicità gratuita ^^)
E lo stesso tipo di vincolo gnoseologico ed ontologico insieme è quello che vincola linguisticamente all'interno del mondo "metafisico" (si pensi ad Heidegger ma anche a Wittgenstein). L'articolazione di ogni pensiero è già un dualismo forzato (soggetto e
predicato, eredi a loro volta del sostrato e dell'attributo), come direbbe Derrida la differenza sta già all'origine. In Platone trovi già la messa in discussione di questo ma non trovi qualcosa che esca totalmente dalla logica dualista (che si vede soprattutto appunto nelle suddivisioni del Sofista fino ai paradossi di essere e non-essere del Parmenide). Non lo trovi in nessun autore, non si dà, proprio perché sarebbe fuori dalla condizione di possibilità. E con questo vedi che la gabbia è (o caverna) è piuttosto la sabbia mobile del barone di Munchausen (da cui si pretende di uscire tirandosi per i propri capelli). Non si può prendere la questione come una qualunque fra le tante, a cui applicare magari il metodo, il metodo (ed l cogito in descartes non è in germe altro da quanto detto sopra) si fonda invece su questa questione.
Per questo propenderei per un tipo di lavorio "dall'interno", per una riaffermazione del corpo che si concepisca come un "differente all'origine" dalla res cogitans, senza però che ci siano gerarchie fra i due (l'unica cosa che li trascende è la Differenza stessa). Il mondo non sembra essere altro che la risonanza fra le due serie, chiamale corpo e anima, sostrato e attributo, soggetto e verbo, extensa e cogitans, fenomeno e noumeno, rappresentazione e volontà. Qualcuno più astuto ha voluto chiamare Sostanza direttamente la risonanza stessa. Questo è l'unico monismo che si dia (ma si dà appunto in via negativa in qualche maniera, pur essendo un negativo che non è né opposizione né mancanza, il che lo farebbe rientrare nella logica binaria, Hegel docet, da cui invece deve liberarsi).
per motivi di tempo non sono riuscito a leggere tutti i commenti.
Il tema è molto interessante e, personalmente, lo ricollego soprattutto a Schelling e alla filosofia romantica (non idealistica, bada bene!), là dove si sviluppa una visione "spirituale" della natura e quindi del corpo, in virtù del totale rifiuto del dualismo cartesiano e del recupero di una concezione tripartita dell'uomo. Anima, spirito e corpo: l'anima come elemento che "veicola" lo spirito verso il corpo e il corpo verso lo spirito. Ai tempi ci si ricollegava al concetto tedesco di Sinnbild (senso+immagine,cioè spirito+natura tenuti insieme dal "nesso" invisibile dell'anima - su 'ste cose in Italia ha scritto molto Tonino Griffero). Quindi ripresa delle antiche dottrine teosofiche del "corpo spirituale" e visione meno frammentata del rapporto vita/morte. Nel Novecento trovo interessanti soprattutto gli allievi di Heidegger (lo stesso Martin comunque è affine a queste tematiche): Jonas, Uexkull, Juenger, Anders, ciascuno dei quali riprende il tema del corpo/natura secondo una visione anti-dualistica e anti-meccanicistica da punti di vista differenti (come dimostrano le singole bibliografie degli autori citati). Il recupero del tema del corpo in chiave anti-meccanicistica e anti-dualistica è al centro dell'attenzione degli stessi movimenti ecologici, per ovvie ragioni. Questa sommariamente è la mia esperienza filosofica a riguardo! :-)
Saluti
Luigi Copertino