Le radici filosofiche dello Stato moderno / Il Leviatano
Si può agevolmente affermare che la storia politica del seicento contenga la rappresentazione plastica di quello che Thomas Hobbes chiamò lo stato di natura, ovvero il bellum omnium contra omnes. Ma tale fenomeno non è da pensare come circoscritto alla sola politica. Ad esempio anche la teologia aveva portato alla formulazione di tante Chiese, di tante correnti dogmatiche, di tante divisioni e tale frammentazione aveva condotto alle guerre tra cristiani; per questo caratteristica dello Stato doveva essere il saper oltrepassare le differenze religiose e stringere tra le parti un pactum di convivenza civile – appunto, della civitas. E fu questa l'intuizione di Thomas Hobbes: oltrepassare lo Stato di natura, in cui l'homo, preoccupato solo di sé stesso era homini lupus - perché governato solo da spinte egoiche che lo portavano a confliggere con i propri simili - e pensare ad un pactum tra i singoli che in tal modo possano mettere da parte le proprie prospettive personali.
In altri termini, per uscire dallo Stato di natura bisognava tenere a freno ciò che caratterizza l'uomo nello stato di natura, ovvero le sue spinte individuali; bisognava bloccare alla radice ciò che poteva far nascere le differenze per poter costruire uno spazio neutro di vita comune non belligerante. In questa fase il problema fondamentale di chi nel seicento si trova a costruire uno Stato neutro dopo aver abbattuto le cattedrali medievali era così quello di trovare un alveo comune in cui poter paci-ficare i conflitti. Ecco che lo stato moderno nasce proprio come “stato”, appunto, cioè come “ciò-che-sta”, che cristallizza, che blocca ogni individualità in virtù di un progetto più alto che sta-sopra agli individui. Ma questo status doveva tenere insieme tutti, altrimenti non avrebbe potuto garantire alcun “patto”, alcuna pace; lo Stato è, dunque, universale. Nessuno poteva esserne escluso, altrimenti sarebbe caduto il senso dell'operazione politica. Ognuno avrebbe dovuto aderirvi, pena il fallimento del progetto. Per questo motivo il problema fondamentale degli autori della filosofia politica del seicento fu quello di dare una auctoritas universale al potere dello Stato. In altri termini, la pretesa di costituire ex-novo quest'ordine doveva fondarsi su qualcosa-qualcuno che avrebbe garantito la bontà del progetto; e, al contempo, sul fatto che “all'esterno” di questo qualcosa non vi sarebbe potuta essere possibilità di pace, ma soltanto continua guerra tra cattolici, ugonotti, re, conti, principi e Chiese.
Chi poteva però garantire l'imparzialità di questo progetto? Chi poteva ergersi a fundamentum neutrum? Non ci si poteva più richiamare ad una autorità teologica, perché altrimenti si sarebbe ricaduti nelle divisioni delle Chiese, nelle tante confessioni (politiche o religiose) con i loro interessi particolari; il nuovo Stato, invece, per un verso doveva poter occupare una posizione di priorità e superiorità rispetto al molteplice; dall'altro, però, non poteva percorrere la via tradizionale della fondazione sacrale del potere. Per questo motivo lo Stato moderno nasce con l'esigenza della laicità e del progressismo, cioè della rottura con la tradizione; ma non per questo è un'entità debole: al contrario, esso fonda un potere che è tanto assoluto come se fosse sacro. E dunque, non potendo più agganciare il potere dello Stato al potere del Dio creatore, ecco che esso viene a fondarsi, come una piramide, sui "cittadini” che ne sono alla base. La sfida dello stato moderno era pertanto costituire un potere forte e resistente ma neutro, che fosse garanzia per le differenze. L'appartenenza a questo spazio neutro (ma assoluto) avrebbe così distinto chi stava “dentro” lo Stato – e dunque ne ero beneficiario dei diritti, ma a patto di alienare parte dei propri interessi – e chi invece ne stava fuori: una bestie, brutale e fautore di odio e guerre. Per risolvere questo dilemma, Thomas Hobbes diede vita ad una nuova figura mitica che avrebbe creato lo spazio politico dello Stato: il Leviatano.
Questo dio mortale veniva interpretato come il corpo mistico dei cittadini; era la superiore unità che garantiva e fondava lo spazio “laico” di ciò-che-sta* e che però non era legittimato da un'auctoritas religiosa bensì soltanto dal fatto che esso rappresenta la totalità degli individui. Ecco perché questo “dio” era “mortale”: esso legava la propria esistenza alla sottomissione volontaria dell'individuo, che decideva di entrare nello spazio laico della città garantito dal re-Stato e ad esso affidarsi per la salvaguardia della pace e della vita. Lo Stato moderno, anche quando non assume i tratti monarchici dello Stato hobbesiano, ha origine da un atto di secolarizzazione, ovvero da uno slittamento del potere dal sacro allo Stato; e al contempo nasce la concezione rappresentativa: l'autorità del re sulla città deriva semplicemente dal fatto che egli rappresenta l'unità dei vari interessi particolari. Non serve più la distinzione dei poteri, tra l'auctoritas della Chiesa e la potestas dell'Impero: ora bisogna voltare pagina rispetto alle differenze delle comunità, siano esse religiose e comunali-politiche, e così - sostiene Hobbes - bisogna entrare tutti in questo nuovo progetto che vuole costruire uno spazio di convivenza mediata dallo Stato.
*Mi sono occupato dello Stato come di ciò-che-sta, in opposizione alla comunità (“ciò che vive”) in un articolo sul sito Die Brücke, dal titolo La sacra costituzione e il totalitarismo del novecento
In altri termini, per uscire dallo Stato di natura bisognava tenere a freno ciò che caratterizza l'uomo nello stato di natura, ovvero le sue spinte individuali; bisognava bloccare alla radice ciò che poteva far nascere le differenze per poter costruire uno spazio neutro di vita comune non belligerante. In questa fase il problema fondamentale di chi nel seicento si trova a costruire uno Stato neutro dopo aver abbattuto le cattedrali medievali era così quello di trovare un alveo comune in cui poter paci-ficare i conflitti. Ecco che lo stato moderno nasce proprio come “stato”, appunto, cioè come “ciò-che-sta”, che cristallizza, che blocca ogni individualità in virtù di un progetto più alto che sta-sopra agli individui. Ma questo status doveva tenere insieme tutti, altrimenti non avrebbe potuto garantire alcun “patto”, alcuna pace; lo Stato è, dunque, universale. Nessuno poteva esserne escluso, altrimenti sarebbe caduto il senso dell'operazione politica. Ognuno avrebbe dovuto aderirvi, pena il fallimento del progetto. Per questo motivo il problema fondamentale degli autori della filosofia politica del seicento fu quello di dare una auctoritas universale al potere dello Stato. In altri termini, la pretesa di costituire ex-novo quest'ordine doveva fondarsi su qualcosa-qualcuno che avrebbe garantito la bontà del progetto; e, al contempo, sul fatto che “all'esterno” di questo qualcosa non vi sarebbe potuta essere possibilità di pace, ma soltanto continua guerra tra cattolici, ugonotti, re, conti, principi e Chiese.
Chi poteva però garantire l'imparzialità di questo progetto? Chi poteva ergersi a fundamentum neutrum? Non ci si poteva più richiamare ad una autorità teologica, perché altrimenti si sarebbe ricaduti nelle divisioni delle Chiese, nelle tante confessioni (politiche o religiose) con i loro interessi particolari; il nuovo Stato, invece, per un verso doveva poter occupare una posizione di priorità e superiorità rispetto al molteplice; dall'altro, però, non poteva percorrere la via tradizionale della fondazione sacrale del potere. Per questo motivo lo Stato moderno nasce con l'esigenza della laicità e del progressismo, cioè della rottura con la tradizione; ma non per questo è un'entità debole: al contrario, esso fonda un potere che è tanto assoluto come se fosse sacro. E dunque, non potendo più agganciare il potere dello Stato al potere del Dio creatore, ecco che esso viene a fondarsi, come una piramide, sui "cittadini” che ne sono alla base. La sfida dello stato moderno era pertanto costituire un potere forte e resistente ma neutro, che fosse garanzia per le differenze. L'appartenenza a questo spazio neutro (ma assoluto) avrebbe così distinto chi stava “dentro” lo Stato – e dunque ne ero beneficiario dei diritti, ma a patto di alienare parte dei propri interessi – e chi invece ne stava fuori: una bestie, brutale e fautore di odio e guerre. Per risolvere questo dilemma, Thomas Hobbes diede vita ad una nuova figura mitica che avrebbe creato lo spazio politico dello Stato: il Leviatano.
Questo dio mortale veniva interpretato come il corpo mistico dei cittadini; era la superiore unità che garantiva e fondava lo spazio “laico” di ciò-che-sta* e che però non era legittimato da un'auctoritas religiosa bensì soltanto dal fatto che esso rappresenta la totalità degli individui. Ecco perché questo “dio” era “mortale”: esso legava la propria esistenza alla sottomissione volontaria dell'individuo, che decideva di entrare nello spazio laico della città garantito dal re-Stato e ad esso affidarsi per la salvaguardia della pace e della vita. Lo Stato moderno, anche quando non assume i tratti monarchici dello Stato hobbesiano, ha origine da un atto di secolarizzazione, ovvero da uno slittamento del potere dal sacro allo Stato; e al contempo nasce la concezione rappresentativa: l'autorità del re sulla città deriva semplicemente dal fatto che egli rappresenta l'unità dei vari interessi particolari. Non serve più la distinzione dei poteri, tra l'auctoritas della Chiesa e la potestas dell'Impero: ora bisogna voltare pagina rispetto alle differenze delle comunità, siano esse religiose e comunali-politiche, e così - sostiene Hobbes - bisogna entrare tutti in questo nuovo progetto che vuole costruire uno spazio di convivenza mediata dallo Stato.
*Mi sono occupato dello Stato come di ciò-che-sta, in opposizione alla comunità (“ciò che vive”) in un articolo sul sito Die Brücke, dal titolo La sacra costituzione e il totalitarismo del novecento
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