I giovani tra noia, nichilismo e spiritualità
Anche quando, e proprio quando, non siamo particolarmente occupati dalle cose e da noi stessi, incombe su di noi questo “tutto”, per esempio nella noia autentica. Essa è ancora lontana quando ad annoiarci è solo questo libro o quello spettacolo, quell’occupazione o quest’ozio, ma affiora quando “uno si annoia”. La noia profonda, che va e viene nelle profondità dell’esserci come una nebbia silenziosa, accomuna tutte le cose, tutti gli uomini, e con loro noi stessi, in una strana indifferenza.Il percorso speculativo di Heidegger si diramerà verso nuovi e ampi sentieri, ma a noi interessa soffermarci sul tragico della possibilità e sulla noia, cercando di cogliere in che misura la società giovanile “senta” e “viva” il niente. Le dimensioni giovanili del “sentire”, del vivere e affini sono state di recente messe in discussione alla luce delle reazioni “irragionevoli” e “violente”, che la società giovanile stessa esprime, attraverso una discutibile chiave di lettura, secondo la quale i giovani del nuovo millennio sono “analfabeti emotivi”, ovvero incapaci di esprimere le emozioni provate dinanzi all’immediatezza e alla genuinità della vita. La plausibilità di tali affermazioni si fonda direttamente sull’idea che il malessere giovanile sia la nota distintiva dei giovani di questo nuovo millennio, cresciuti ed educati nell’età del nichilismo. L’«analfabetismo» sarebbe così non solo un’incapacità, un limite della gioventù attuale, ma sia un limite derivante da una dimensione storico-culturale, sia una conseguenza della «morte di Dio»: è quello che i filosofi contemporanei hanno chiamato nichilismo ed è quello che tocchiamo direttamente quando ci scontriamo con immagini e avvenimenti meramente distruttivi, dinanzi ai quali rimaniamo spiazzati, impotenti e incapaci di comprendere non solo le ragioni e moventi ma soprattutto come sia possibile tanta «strana indifferenza», tanta freddezza metodica negli omicidi e negli stupri, nella facilità con cui tanti giovani assumono sostanze stupefacenti o assumano comportamenti meramente distruttivi. Il punto nodale non è tuttavia da rintracciarsi nei casi estremi o negli atti cruenti, ma nella percezione quotidiana di tanti giovani, gettati in una società che chiede loro valori “aziendali”, quali produttività e quantità di titoli, lavoro e professionalità e che censura proprio tutto quel bagaglio emozionale e affettivo. Il giovane è spesso accerchiato da una quantità di pressioni sghembe, senza mediazione, e prova vuoto, si sente «spaesato», perso. Ciò che in primo luogo impressiona l’ascoltatore delle cronache giovanili è proprio quel senso di vuoto, quella mancanza di senso, tanto ben denunciata e stilizzata nel colore nero, predominante nell’abbigliamento under-30: è un nero “ideologico”, è un nero che rivela mancanza di luce, mancanza di un senso profondo che possa guidare quotidianamente la condotta, è un “nero” paradossale, perché è indossato da coloro che hanno tempo per esprimersi, che hanno futuro. D’altronde lo stesso Heidegger sottolinea come quella “strana indifferenza”, quella “noia autentica”, riveli, in ultima analisi, una mancanza di senso.
M.Heidegger, Che cos’è metafisica? Tr. it. di Franco Volpi, Adelphi 2001
Nel tematizzare la presenza di quell’«ospite inquietante» , per richiamare il saggio di Umberto Galimberti, vorrei provare a sostenere che questo vuoto di senso e le relative reazioni giovanili non siano soltanto un male tipico del nostro tempo, ma siano la conseguenza dell’amplificarsi di una tendenza sempre presente nell’uomo, ovvero la tendenza a chiudersi nell’amore di sé, nel proprio ego. Chi vede solo il proprio ego, solo sé e i suoi istinti, concepisce il mondo e gli altri come oggetti, li cosifica e per lui ogni ente esiste solo nella misura in cui è funzionale a sé. Non c’è da stupirsi della freddezza o della «strana indifferenza» se le rapportiamo a tutta la percezione del mondo che può avere un giovane educato alla sopravvivenza di sé nella competizione del mondo capitalista. Inoltre la decisiva impronta oggettivistica e la tendenza alla riduzione tecnica e quantitativa della società contemporanea – qui richiamo ancora alle riflessioni di Heidegger – contribuisce in maniera determinante a chiudere il ragazzo in una dimensione estetica ed edonista, la prospettiva per lui più affascinante, per la quale gli sembra essere naturalmente portato, che valorizzi al massimo il proprio sé, ma al fondo della quale, trova il nulla, il “nero”. B. Pascal seppe ben tratteggiare tali dinamiche nel frammento:
Chi non vede la vanità del mondo è ben vano egli stesso. E così mai chi non la vede, a eccezione dei giovani che sono completamente immersi nel chiasso, nel divertimento e nel pensiero dell’avvenire? Ma togliete loro il divertimento, li vedrete consumare di noia; provano allora il loro nulla senza conoscerlo;»La seconda, impegnativa, tesi è che esista una sana alternativa, un approccio che restituisca la semplicità e l’originarietà dei rapporti dell’uomo con la natura e con gli altri e consista nel trovare un senso unico e complessivo alla propria esistenza. Le condizioni per realizzare un progetto di vita, che sappia valorizzare ogni attimo e ogni opportunità, sono attingibili nell’interiorità di ognuno, in quel fondo dove vivono coscienza e ragione, dove gli impulsi e le pressioni mondane tornano ad avere un ruolo secondario. Chi smarrisce il fondo vive le possibilità, le occasioni e le pressioni mondane come divise e problematiche, le vede insensate perché non conducono a nulla di stra-ordinario: lo assale un senso di vuoto e mancanza. Il giovane più di ogni altro deve saper condurre il proprio presente per valorizzare ogni attimo della propria vita e inserirlo in un contesto unico, completo. Eppure saper guardare dentro di sé è complesso in particolar modo proprio per chi è giovane, perché richiede il saper moderare i propri istinti, saper convogliare le energie e la vitalità non verso quell’amore di sé che tutto cosifica, ma verso la ragione universale, unica in grado di condurre rettamente la nostra vita.
B. Pascal, Pensieri, tr. it. A cura di A. Bausola, Bompiani, Milano 2000
Ma c’è un’altra cosa da cui ti devi guardare e che è motivo di distrazione: ed è, stolta e vana, l’azione di tanta gente stanca della vita, senza scopo e senza meta alcuna verso cui dirigere ogni sforzo e, una volta per sempre, il pensiero.
M.A.Aurelio, Ricordi, tr. it a cura di E.Turolla, BUR 1975
Commenti
Non credo che i giovani di oggi siano figli del nichilismo, o almeno non solo di quello (è un padre sempre prolifico quello): sono figli dei genitori che li hanno messi al mondo, prima di tutto, e questo non è secondario. Da dove viene tutto 'sto Ego se non da genitori che hanno sempre accontentato i loro bimbi, che gli hanno protetti troppo, incensati troppo, difesi troppo, e, in definitiva, ingannati sulla realtà della vita.
PS
Ciao ciao Andrè, complimenti per il tuo blog, molto interessante!
E sulla via che ho proposto (e in cui credo fortemente) cosa ne pensi?
Volevo però ampliare e precisare il mio discorso: per quanto l'accento vada spostato sui genitori, soprattutto in relazione ad alcune forme d'infantilismo prolungato (egocentrismo, amoralismo), i giovani vanno ritenuti responsabili di se stessi e delle loro azioni. Credo che la responsabilizzazione comporti un insieme di effetti benefici, maggior coscienza del proprio essere potenzialmente colpevole, maggior spazio di riflessione, attenzione per gli altri, maggior senso di concretezza, etc.
Però, molto prima di questo, ci sono gli esempi di coerenza che non devono venire necessariamente dai genitori.
PS
Com'è andato il caffè filo?
sono rimasto positivamente impressionato dal tuo utilizzo di un estratto della prolusione del 1929 di Martin Heidegger. Nel nostro centro culturale lo studiamo tantissimo, quindi ho potuto apprezzare la tua comprensione della "vera noia" di cui parla H.
In effetti, si sta parlando di una consizione esistenziale che spesso i ragazzi vivono ma che non sanno nominare. In questo senso, sono persi, spaesati. Prendono ciò che c'è di cattivo della tonalità emotiva della "vera noia" con cui il fatto d'essere si sta presentando.
Tuttavia, H. alla fine della prolusione, che Franco Bertossa ama definire "il primo sutra d'Occidente", parla di un'esperienza che ci traghetta fuori dagli alti e bassi... Insomma: Heidegger sembra star dicendo che il fatto che esistiamo non è più un essere gettati nell'esistenza, se comprendiamo il vero significato dell'esperienza, da una lato della noia e delle altre tonalità che rivelano l'essere (il fato d'essere), dall'altro l'angoscia (che non ha l'accezione negativa del senso comune).
Insomma, ti consiglio di guardare meglio in quel testo. Noi occidentali siamo ancora un po' acerbi per poter comprendere "che cos'è metafisica?" pienamente. Pensa solo che la prima edizione in lingua straniera fu in Giapponese!
Un caro saluto
Paolo
Complimenti per il vostro lavoro di lettura. Mi incuriosisce la definizione di "primo sutra d'occidente", anche perchè questi incontri tra le tradizioni mi convincono sempre più della veridicità e della portata di una certa mistica, in cui mi sentirei di iscrivere anche il nostro H., lettore e fruitore di tutta quella tradizione, soprattutto di Eckhart, dal quale attinge pienamente anche a livello "linguistico".
Grazie per gli spunti!
Non è un problema tanto di gioventù, qui è un problema di sviluppo della tecnica e di sviluppo spropositato dell'io. Così la noia diventa insopportabile, siamo lontani anni luce dalle vette esistenziali di Leopardi che riconosceva in essa uno dei sentimenti più sublimi. Oggi si pretende il divertimento, si pretende che la propria vita (così unica, così importante) sia riempita fino allo straripare. C'è un horror vacui impressionante, bisogna sempre ammazzare il tempo, divertir-si (sei stato bravissimo a pescare Pascal che è un altro veggente straordinario) nel senso proprio etimologico di allontanarsi dal vuoto che si è inevitabilmente, cambiando argomento, cercando ossessivamente qualcosa di nuovo.