Fine della morte?

Prendo spunto da un breve e significativo articolo di Paolo Ferrante (qui) per cercare di riflettere sul posto e sulla percezione dell'evento della morte nella "visione del mondo" della nostra società. Certamente la vastità del problema esula da questo contesto e perciò mi limiterò a riflettere su alcune affermazioni presenti nell'articolo citato. Come d'abitudine mi piacerebbe iniziare con l'inquadrare la genesi del problema e dei relativi tentativi di approccio, perciò - con buona dose di narcisismo - rimando ad una mia recensione ad un saggio di H.Jonas, Il problema della vita e del corpo nella dottrina dell’essere (qui) che illustra bene la questione.
se si affida la morte alla tecnica si finisce per assegnare delle risorse (umane) a questo affare che, di conseguenza, non ha più nulla di misterioso o di sacro, non è più qualcosa a cui educarci. E' un affare come tanti.
Così Paolo Ferrante chiude l'articolo e ci apre diverse vie: cosa significa affidare la morte? Solo salvaguardando sacro e mistero è possibile approcciarci con rispetto alla morte? Cosa significa educarci alla morte? La progressiva censura che il problema della morte, perchè di problema si tratta, ha subìto in questi ultimi anni è evidente anche ad una lettura superficiale e nella misura in cui è scomparsa un'educazione alla morte, è svanita anche un'educazione alla vita poichè essa è un fatto meramente biologico e la morte «è un affare come tanti», un elemento necessario per la conclusione di un processo accidentale, che è capitato a te per "caso", con la forma dell'ineluttabile sequela ordinata "nascita-vita-morte". La cosiddetta "morte naturale" viene oggi desiderata perchè rappresenta la "normale" conclusione: è l'espressione tipica della normalizzazione della vita e della censura della morte come evento, come fatto che tocca l'esistenza di un individuo, è la conseguenza di una visione meramente materialistica del vissuto, dove l'aggregato di atomi è, forse, prodotto da un mero clinamen e tutto è direzionato da un processo vorticoso. L'azione dell'uomo si innesta su questo processo di atomi con tal forza e "volontà di potenza", che l'obiettivo è ora determinarli empiricamente tutti, che anche la morte diviene un qualcosa di empirico, di accidentale come un clinamen, a cui accostarsi freddamente e in una fredda sala d'ospedale, tutta tinta di bianco. Paolo Ferrante richiama alla concezione sacrale della morte che resiste in alcune società Orientali, evidenziandone giustamente il calore e il significato che questo evento ha per la comunità. Ma quale via può aprirci l'Oriente se alcune pratiche e concezioni sembrano appartenere, con le dovute differenze, più al nostro passato che all'alba del futuro? Non sarà forse la coscienza filosofica occidentale, con la sua razionalità e spiritualità, a saperci indicare sapientemente la via? Affidandoci all'Oriente religioso e non filosofico, come spesso ascoltiamo indicarci, non staremo forse rischiando di falsare noi stessi?

Commenti

Anonimo ha detto…
Una concezione sacrale della morte è possibile solo se la concezione della vita è quella spirituale che la descrive come un tramite per guadagnare qualcosa dopo questo percorso. Ma in tal senso la morte acquisisce la connotazione di "passaggio" a qualcosa di migliore. Senza riflettere sulle numerose differenze di concezione sul dopo-morte, vorrei sottolineare che questo concetto, oggi più che mai, sta assumendo solo il mero significato di "termine di vita" e non più "passaggio" a qualcosa di altro, e in questo sia la morte che la vita perdono la propria connotazione spirituale data in passato. Che cosa sia la morte nessuno può dirlo visto che non è empiricamente dimostrabile, per questo credo sia lecito definirla come solo "termine di vita" e non come "passaggio". Del resto anche questa è una supposizione come altre. Forse rendere vita e morte più sacre e spirituali ci aiuta solo ad affrontare la sofferenza che viene da entrambe con più tranquillità. Che poi ad alcuni dia più tranquillità pensare che sia tutto qui e sotto il nostro controllo, forse è anche logico.

Antonio
Caro Andrea,
grazie per avermi preso in causa nel tuo bel blog. Sono contento soprattutto per il tuo spunto nei confronti delle culture orientali. Sono d'accordo con te che le culture orientali non possono darci nulla, proprio in quanto non filosofiche e noi essendo immersi completamente nel pensiero greco. Dobbiamo sforzarci con le nostre forze di superare "la stanza bianca e asettica" in cui ci siamo cacciati e in cui stiamo cacciando anche il mondo che un tempo era l'oriente, ma che sta crollando sotto il fascino della tecnica. Allora una domanda preliminare sarebbe quella sul perché il pensiero tecnico avvince. E' chiara la conseguenza del pensiero tecnico portato all'estremo, ma forse è meno chiaro come agisce. Altro pasaggio sarebbe quello di capire se rimane qualcosa al di fuori del pensiero tecnico (che potremmo anche chiamare pura volontà di potenza senza sbagliare troppo) che possa fornire un'ancora di salvataggio. Ma ancora dippiù: necessitiamo di essere salvati? L'intenzione dell'articolo era quella di dire sì, io voglio essere salvato da una mente solo calcolante, che potrebbe essere la mia, tranquilamente. Ma uno potrebbe ribattermi: allora "vuoi", quindi non si esce dalla volontà di potenza. A questo punto la domanda se ci sia quancosa "fuori" dalla volontà diventa urgente. Altrimenti rischiamo di presentarci all'appuntamento con la morte senza niente... o con qualche placebo orientaleggiante...
Unknown ha detto…
Rispondo a Paolo: Grazie per avermi fatto riflettere su un punto importante: necessitiamo di esser salvati? Cosa significa Salvezza? Connotare in maniera religiosa il termine salvezza significa slittare indebitamente il piano di riflessione o no? E quindi: in questo momento della riflessione, quanto è possibile parlare ancora di "piani"? Non ho certo le competenze per affrontare in maniera seria questo discorso, ma provo ad illustrare brevemente la via su cui secondo me sarebbe bene proseguire. Quando dici "io voglio esser salvato" in realtà non ti stai allontanando molto dalla volontà di potenza, come tu giustamente hai sottolineato: come pretende di uscire da un sistema se si utilizzano i mezi del sistema stesso? (è una critica che faccio spesso in campo politico eheh) La letteratura mistica offre a mio avviso una strada percorribile, forse l'unica strada per uscire dal dominio della tecnica perchè consiste proprio nella soppressione della radice della tecnica: la volontà egoica, l'eigenschaft. Solo nel distacco, nell'abbandono del sè, è possibile accogliere l'essere, il mondo, l'altro ed esser così salvati in senso proprio. Questo è il significato della Grazia. E si badi che non sto portando avanti un discorso meramente teologico, quindi astratto e distante dalla propria quotidianità e dalle proprie esperienze e per mostrarvelo vi indico un passaggio di un non-credente (come me), che citavo nell'intervento precedente: Cacciari è su questa stessa linea quando parla di "Esodo dalla propria philautia". Finchè continueremo a pensare e porci domande secondo ratio e non intellectus continueremo a restare imbrigliati nel sè. Dobbiamo "imparare l'arte di coltivare le contraddizioni" (Florenskij) ed emergere abbandonando il pensiero della distinzione per scendere nell'abisso dove abita lo "Straniero che è in me" (Cacciari).
Sì interessante la questione dello straniero. Inoltre, secondo me si innesta bene al senso che l'individuo ha per se stesso e per gli altri nella nostra quatidianità di essere occidentali senza Dio: siamo alieni a noi stessi e agli altri. E gli altri sono alieni a noi. In questo senso straniero (ma anche viandante... di Galimberti) è un tentativo di riprendere in mano la patata bollente dell'uomo e dello Humanismus. Dico che bisogna essere salvati in quanto è innegabile che tutto ciò non mi basta. Come dice qualcuno, Dio e morto, Marx è morto e oggi neanch'io mi sento molto bene
Unknown ha detto…
Sì, condivido. L'hai letto "solo un dio ci può salvare" di Heidegger? Io non ancora...

Mi spiace che alcune volte discorsi interessantissimi come questo debbano rimanere nelle poche frasi che scambiamo qui e non possano essere concretizzati in una ricerca, in uno studio serio, perchè abbiamo tanto da imparare. E' il prezzo della nostra università: ultimamente non ho tempo "libero" da dedicare ad una ricerca seria perchè tutto è scandito da esami e lezioni perchè si pretende efficienza, rapidità. Il prossimo anno farò una bella pausa.. ;)

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