La felicità degli animali?

In questi giorni sto rileggendo l'Etica Nicomachea e trovo che lo sforzo richiesto ad lettore moderno di entrare nella mentalità greca, così distante sin dalle minime e quotidiane abitudini, sia fortemente appagante. Tuttavia non voglio certo ripercorrere questo cammino sul blog nè mostrare fino a che punto abbia realizzato quella fusione di orizzonti tanto desiderata ma come di consueto vorrei prendere spunto da determinate concezioni per discutere le nostre attuali percezioni in tal senso, come ad esempio ho tentato di fare con Aristotele stesso nel post Linguaggio e cervello, tra Aristotele e le Neuroscienze. Stavolta vorrei discutere la concezione contemporanea della "felicità degli animali" e prendo spunto dal libro I, 10 dell'Etica Nicomachea, righe 1099 b - 1100a, nelle quali mi pare che il tema sia stato centrato in maniera chiara:
Queste istanze saranno in accordo anche con ciò che dicevamo all'inizio: infatti ponevamo che il fine della politica è il fine supremo; e questa mette moltissima cura nel rendere i cittadini dotati di buone qualità, ovvero persone dabbene e capaci di compiere cose moralmente belle. E' ovvio quindi che non diciamo felice nè un bue nè un cavallo nè nessun altro degli animali, giacchè nessuno di essi è capace di partecipare di tale attività. Per questa ragione neppure un fanciullo è felice: infatti non è ancora capace di compiere tali azioni a causa della sua età; e quelli che sono chiamati felici, sono felici in forza della speranza che compiranno belle azioni. Infatti, come abbiamo detto, la felicità abbisogna sia di una virtù perfetta che di compiutezza di vita.
Alla concezione Aristotelica della felicità sono stati dedicati vari lavori accademici e sarebbe riduttivo tentare di riassumerla in questa sede e perciò mi limito ad accennare un paio di aspetti utili alla riflessione. La felicità è per Aristotele un modo di essere dell'uomo che esercita le proprie virtù in maniera completa. La felicità non è un qualcosa che si possiede, ma è legata all'attività (energheia) politica o teoretica dell'uomo virtuoso. L'esercizio delle virtù è definito in vari modi e pertanto non vi è una strada singola o dogmaticamente stabilita per essere felici. Ma, appunto, se la felicità è dipendente dall'esercizio delle virtù allora ad Aristotele pare assurdo dire che sono felici i bambini, le donne, gli schiavi e tutti coloro che sono inabili alla vita politica o teoretica.

La lettura di Aristotele mi pare utile per mettere in questione l'idea che l'ignoranza sia in qualche modo un terreno fertile per una vita felice. Questo tipo di concezione è tutt'oggi radicata nelle nostre case e troppo spesso riemerge all'accadere di avvenimenti spiacevoli, come se fosse un'inevitabile sentenza sulla vita e sul mondo, a cui sarebbe meglio non pensare. Nel nostro parlare comune, ad esempio, spesso utilizziamo espressioni quale "felice come un bambino" oppure ci troviamo ad "invidiare", come il nostro Leopardi, la tranquillità e la serenità degli erbivori che brucano al pascolo. Nel passato questa perversa produttività dell'ignoranza in materia di buona vita non è rimasta vox populi ma è stata esposta da menti altissime in letteratura e in filosofia quali il già citato Leopardi o Schopenhauer, autori che non a caso sentivano in maniera particolarmente dura la brutalità del mondo e ne registravano il dolore e l'ingiustizia. D'altro canto questi stessi autori hanno assunto una visione del mondo totalmente disillusa riguardo le potenzialità della ragione umana e la loro posizione in maniera di felicità e ignoranza appare coerente.

La discussione sarebbe amplia e come ho cercato di mostrare in materia è presente un ventaglio talmente amplio di scelte e posizioni che possiamo muoverci a nostro agio per tutta la tradizione ma riguardo questo punto in particolare, ossia la felicità del vivere nell'ignoranza, mi sembra che la discussione non possa che fermarsi a questo bivio: o Aristotele o Schopenhauer. Credo che una posizione come quella di Schopenhauer ci sgravi da molti pesi e mi sembra sia una buona strada in discesa da prendere, salvo poi fare i conti con alcune aporie radicali a cui va incontro e che Aristotele aveva già chiare. Oggi, dopotutto, va di moda questo allentarsi verso una vita animale, questo voler a tutti i costi brucare, dormire e godere, scoprendosi poi a guardare il mondo con occhi vuoti e neri, come le pecore di Leopardi. Se esser all'oscuro del mondo, esser fuori dalle logiche che regolano i rapporti interumani o le questioni (teoretiche) sulla vita e sulla morte significa poter vivere felici allora è facile tirarsi fuori e vivere questa vita da "bestie". Già, per Aristotele, e su questo condivido, una vita del genere sarebbe una vita "da bestie" perchè apriori un uomo che la scegliesse si priverebbe delle virtù e delle potenzialità che naturalmente ha sotto mano, ossia proprio di quelle caratteristiche che lo rendono uomo. La felicità umana è allora una sfida, un dono che l'uomo vive (non possiede) nel suo quotidiano percorso.

Commenti

sgubonius ha detto…
Questo è un tema inesauribile, fra l'altro cruciale per ogni etica penso (ammesso e non concesso che essa abbia per scopo la felicità).
Hai evidenziato bene due estremi ma mi sentirei come sempre da guastafeste di aggiungerne un terzo che si può in qualche maniera derivare dai precedenti! Entrambi i "sistemi" da te citati hanno in comune una forma intrinseca di dualismo tanto da opporsi quasi soltanto per l'ordine dei fattori. Se viene prima la volontà allora c'è poco da fare, se viene prima la rappresentazione (intesa in senso molto vasto ovviamente, tanto da far rientrare dentro le "virtù" per esempio di cui Aristotele fa uso) d'altro canto bisogna fare qualcosa massimamente.
In un'ottica ulteriormente monistica e immanente (sull'immanenza di Aristotele avrei sempre dei dubbi), il problema dell'etica viene invece totalmente ristudiato. Penso soprattutto all'Etica di Spinoza che potrebbe a tutti gli effetti essere una via di mezzo. Da una parte non distingui più in termini trascendentali l'uomo dalla bestia, dall'altra ne dimostri la superiorità sul piano della potenza (che è certamente una energheia ma con un cambiamento decisivo nel concetto di "virtù").
La felicità insomma è la medesima per uomini e animali, che non è il brucare passivamente l'erba ma è il vincere la resistenza di un altra forma di vita e digerirla, è anche il dolore e la fame come passaggio insomma, solo noi abbiamo delle potenzialità enormemente maggiori di controllo delle "passioni negative" di cui dovremmo imparare ad approfittare!
Sgub sto sempre qui a ringraziarti per i commenti e questo può apparire un tantino di cattivo gusto perchè sembra che stia cercando di arruffianarmiti perciò eviterò in futuro di farlo ehhe.

Aggiungi un polo interessante anche se in realtà non ho letto l'etica di Spinoza nè vorrei troppo arrischiarmi su questo tema. Secondo me, permettimelo, le due polarità non si stabilizzano man mano per i concetti di volontà e rappresentazione, anche perchè essi sono totalmente stranei alla emntalità greca, checchè ne dica Nietzsche. Mi sembra che le discriminante tra i due siano in questi punti essenziali:

1) Nel considerare la felicità come uno status (Schopenhauer) invece che come l'esercizio stesso dell'attività (Aristotele). Lo status in S. è pittosto l'opposto, nel senso che l'infelicità è trattata come condizione "normale".

2) Nel legame tra l'attività dell'anima, conosciutiva o politica e la felicità (in Aristotele c'è, in S. è assente).


Tieni conto che Schopanhauer è successivo a Spinoza e nel frattempo ci sono stati Kant ed Hegel (contemporaneo) che hanno tracciato linee ben precise. Non so fino a che punto sia valido un discorso che miri a confrontarli così di netto, senza mediazioni. In effetti poi concretamente l'ho fatto anch'io oggi nel testo e forse sono stato ingiusto ma volevo limitarmi a fornire un paio di esempi sostanziosi (Schop. e Leopardi) a surrogare quell'opinione comune che individuavo. Forse entrambi stiamo volando un po' troppo senza piedi per terra.. .:)
AndreaCati ha detto…
Il fatto è che hai argomentato gli autori considerandoli come pensatori che hanno dedicato un'attenzione speciale a condizioni particolari ed isolate della condizione umana.
Aristotele sembra attribuisca al soggetto maturo e razionale la totale responsabilità della sua felicità, mentre Schopenhauer sembra deresponsabilizzare l'uomo giustificando la sua incapacità di essere felice perché incapace di recuperare l'innocenza del bambino.
Non dimentichiamoci che Aristotele parla di fortuna, di sorte, di destino. L'uomo non è il solo ad essere responsabile della sua felicità, perché insieme al suo volere e fare virtuoso, ha bisogno che qualcosa che non dipenda dalle sue forze ma accada, avvenga e si dia al di là di se stesso. Basti pensare all'importanza dell'ordine della famiglia, della polis, che ognuno di noi trova già dato dalla nascita.
Schopnhauer crede che la felicità diminuisca all'aumentare della conoscenza della persona. Per cui chi è ignorante sarebbe ancora in grado di far visita in quei lidi puri...Visione che ovviamente non concordo ma che assumo come possibile, nel senso che la felicità potrebbe non conquistarsi dopo un percorso esistenziale fatto tra gli orrori più indicibili. S. come Leopardi, vissero una vita travagliata per cui è comprensibile il loro pessimismo.
sgubonius ha detto…
Si in effetti si semplifica un po' troppo, i ponti senza pilastri sono pericolosi! Peraltro io conosco molto poco Aristotele, per cui sono forzato a leggerlo coll'ottica posteriore, il che non aiuta certo.

Se volessimo raffinare quanto detto prima si potrebbe correggere di fatto la "via di mezzo" mostrando soprattutto la differenza fondamentale fra Scopenhauer e Spinoza che porta di fatto il secondo molto vicino ad Aristotele. Tu stesso hai parlato di statica/dinamica del piacere, io tradurrei i due termini in essenza/potenza per instaurare un immediato nesso fra il platonismo dualistico delle essenze che attraverso Kant va fino a Schopenhauer (passo Hegel, tanto non andavano molto d'accordo!) e l'aristotelismo della fisica della potenza (sostanza, atto, dunamis, energheia eccetera) di cui mi pare Spinoza sia debitore sotto molti aspetti.

D'altro canto mi piaceva una certa lettura spinoziana che scavalcasse alcune affermazioni di Aristotele troppo "scolastiche"! Insomma la virtù come elemento posteriore e figlio della "fisica", cioè la virtù come figlia della potenza e dell'agire (e non un agire condizionale alla virtù). Schopenhauer resta come valido contraltare per estrarre questa differenza.
La faccio breve insomma, se Schopenhauer è all'opposto dell'etica Aristotelica, Spinoza può esserne all'inverso (come in matematica 1 e -1, 2 e 1/2 per intenderci). Si dovrebbe ovviamente approfondire ma temo che qui vengono a mancare le basi nozionistiche, le mie sono putroppo per lo più suggestioni.
Sì ma secondo me schematicamente, per fissare le idee in testa, questa strana proporizione nche proponi è efficace. In futuro però ti consiglio di evitare di guardrae con gli occhi di un autore successivo un autore precedente o antico perchè così fai cattivo servizio. :)

Condivido quanto scrivi Andrè, fai bene a precisare.
sgubonius ha detto…
Certamente è sempre meglio andare per vie dirette!! Ma non è sempre possibile, ahimè, "l'arte è tanto grande e la vita è così breve"... !!