La mistica dantesca

La gloria di colui che tutto move
per l'universo penetra, e risplende
in una parte più e meno altrove.

Nel ciel che più de la sua luce prende
fu' io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;

perché appressando sé al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.



Nella protasi del I canto del Paradiso, Dante addensa tutto il dramma della Commedia. Narra di esser giunto nell'Empireo, ossia nel "luogo" dove più intensamente risplendono la luce e la gloria di «colui che tutto move». Così come San Paolo, rapito in ἐξστάσις al terzo Cielo, Dante può ora abitare il luogo più alto, nella misura in cui ha saputo discendere sino all'abisso più miserevole della natura umana; ha saputo affrontare de visu i vizi e i peccati degli uomini per poi distaccarsene, "passare oltre" e attingere, al culmine, alla Bellezza stessa. Tutta la Commedia non è altro che un cammino interiore attraverso le varie moradas: sprofondare nella viltà umana messa in scena nell'Inferno, attraversare il buio delle potenze, fino ad attingere al luogo dove «de la Sua luce prende». Ma questo viaggio ha una doppia direzione paradossale: ascendere all'Empireo corrisponde, simul, alla discesa nell'interiorità dell'uomo, fino a quel fondo dell'anima, che è Dio stesso. Troppi commentatori danteschi hanno ignorato la profonda sensibilità neoplatonica del Sommo poeta.

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