Niccolò Cusano oggi
La scorsa settimana si è tenuto all'Università "G. d'Annunzio" di Chieti un breve convegno internazionale dal tema "Nicolò Cusano oggi"; diviso in due sessioni spalmate in due giorni, il convegno ha visto la presenza dei prof. Michael Eckert (Univ. Tuebingen), Filippo Mignini (Univ. Macerata), Pietro Secchi (docente ai licei di Roma) e dei prof. Enrico Peroli, Roberto Garaventa e Nicoletta Tirinnanzi dell'ospitante Univ. di Chieti. Al convegno ho partecipato anch'io con una piccola relazione sulla concezione trinitaria del Cusano. Oltre le piacionerie di facciata (che, come sapete, non mi appartengono) non posso che giudicare le due giornate come davvero cogenti e molto impegnative a seguirsi, anche perchè, nonostante l'aula non sia mai stata stracolma di ascoltatori, tutti gli intervenuti, anche il cosiddetto "pubblico", avevano un'ottima cognizione delle opere cusaniane: questo ha spinto tutti a riflettere liberamente e ad affrontare i lunghi dibattiti conclusivi tenendo insieme la precisione filologica e la volontà filosofica di penetrare il pensiero dell'autore e delle sue fonti.
Tra i vari spunti che ho potuto raccogliere volevo proporre un'aporia che è stata rilevata durante la discussione e che a volte mi è capitato di affrontare nella Cittadella. Il tema, chiaramente, è l'influenza sul Cusano di una certa tradizione mistica che - in termini brevi - ha cercato di pensare l'approssimarsi a Deo come un percorso di svuotamento della mens, di abbandono al nulla-dire e nulla-pensare proprio dell'atto mistico (da myeo, "chiudere" gli occhi e la bocca). Questo annullarsi, che comporta un vero e proprio atto di distacco da tutto ciò che è determinato e finito, sarebbe l'azione precipua del cammino in Deum. Tuttavia - notava un relatore - in Cusano sembrerebbe rilevarsi uno scarto. In alcuni testi viene presentata una particolare concezione della mens il cui ruolo nella visione che introduce dionisiamente all'in-diarsi non sarebbe semplice passività, come nella mistica di cui abbiamo accennato, ma presupporrebbe una certa attività del pensiero; difatti Cusano a più riprese sottolinea come ciò che ci rende simili a Dio è proprio la capacità creatrice della mens, che, propriamente, è creatrice di concetti: solo nell'atto di creazione del pensiero appare la prossimità a Dio, che è, anzitutto, Padre e creatore. Questo nostro creare "umano" sarebbe allora perfetta immagine e testimonianza della filiazione a Dio. Dunque, come tenere insieme entrambe le prospettive?
Tra i vari spunti che ho potuto raccogliere volevo proporre un'aporia che è stata rilevata durante la discussione e che a volte mi è capitato di affrontare nella Cittadella. Il tema, chiaramente, è l'influenza sul Cusano di una certa tradizione mistica che - in termini brevi - ha cercato di pensare l'approssimarsi a Deo come un percorso di svuotamento della mens, di abbandono al nulla-dire e nulla-pensare proprio dell'atto mistico (da myeo, "chiudere" gli occhi e la bocca). Questo annullarsi, che comporta un vero e proprio atto di distacco da tutto ciò che è determinato e finito, sarebbe l'azione precipua del cammino in Deum. Tuttavia - notava un relatore - in Cusano sembrerebbe rilevarsi uno scarto. In alcuni testi viene presentata una particolare concezione della mens il cui ruolo nella visione che introduce dionisiamente all'in-diarsi non sarebbe semplice passività, come nella mistica di cui abbiamo accennato, ma presupporrebbe una certa attività del pensiero; difatti Cusano a più riprese sottolinea come ciò che ci rende simili a Dio è proprio la capacità creatrice della mens, che, propriamente, è creatrice di concetti: solo nell'atto di creazione del pensiero appare la prossimità a Dio, che è, anzitutto, Padre e creatore. Questo nostro creare "umano" sarebbe allora perfetta immagine e testimonianza della filiazione a Dio. Dunque, come tenere insieme entrambe le prospettive?
Commenti
In 500 anni mi sa che il massimo che si sia riusciti ad aggiungere al Cusano è una strutturazione molto complicata dei rapporti fra trascendente e immanente per permettere questa coincidentia fra passività ed attività. In questo il neoplatonismo non basta credo, e forse Cusano ce lo indica, anche se mai palesemente. Lavorando ai margini del dualismo non è poi difficilissimo creare i presupposti per una integrazione del rapporto della mens col corpo in termini di "creatività" o di "scolpimento della statua", per usare la frase di Plotino che fa da slogan al blog.
Insomma per il nulla-dire bisognerà pur sempre praedicare verbum. Tornando ad Heidegger, bisognerà costruire la "radura" in cui un nulla, cioè un vuoto, un'apertura, assume una dimensione e si attualizza. Forse non diversamente da come il Dio ha attualizzato la sua trascendenza in un corpo che ne esprima la parola (e non solo pro-fetando, ma come verbo incarnato immanente agli altri figli di Dio).
In Cusano mi pare ci sia questa idea sia da un punto di vista "ontologico" con tutti concetti di contrazione, sia da un punto di vista "etico" con l'uomo che deve farsi cristiforme, cioè unione dei separati, dilaniato nella croce (forse la stessa che Heidegger metteva sul verbo essere), e in quanto tale espressione materiale del divino. Allora le ipostasi neoplatoniche, ormai immanentizzate nella complicatio, prendono il regime dell'espressione, cioè del semplice svilupparsi della coincidentia oppositorum del concetto/coniectura potenziale nelle sue forme distinte e materiali, attuali. L'atto creativo e attivo è quello della docta ignorantia, che lascia essere la potenzialità degli opposti elevando il particolare ad incarnazione sempre lacerata di essa. Insomma come la radura che incarna la lacerazione che è la sua apertura al possibile dell'Essere.
Così insomma mi pare si salvano capre e cavoli!