Essere se stessi

Ho sempre pensato che una delle attività più gustose e nel contempo più utili a cui possiamo dedicarci nei momenti "vuoti" sia quella di riflettere sui luoghi comuni e su quelle espressioni che superficialmente utilizziamo o ascoltiamo nel linguaggio quotidiano e che alle spalle hanno secoli di dubbi e questioni. Inizio con il precisare che il nostro utilizzo ingenuo dei termini non è da biasimare, perchè la lingua non è qualcosa su cui applicare categorie come quelle dell'autentico o dell'originario ma è in continuo mutamento, ossia sempre nuova. Pertanto non mi sembra errato utilizzare una parola in un senso differente a quello della sua etimologia se il senso dato è uniforme a quello che gli viene attribuito dalla comunità entro cui è espresso.

Questo incipit voleva in qualche modo introdurre una riflessione di sull'iper-utilizzo "ingenuo" nella nostra quotidianità dell'espressione "Essere se stessi" . In realtà questo mio intervento nasce in seguito allo stimolo che l'amico Andrea Cati ha offerto sul suo blog, con un post dal titolo omonimo a questo. Attualmente l'espressione "Essere se stessi" compare solitamente in opposizione a comportamenti presunti "falsi" o guidati da schemi prestabiliti. In un certo senso il concetto è prossimo a quello di libertà, spesso discusso in varie chiavi (Maledetta informazione). Questo tipo di utilizzo è certamente influenzato dalle recenti acquisizioni in materia di sociologia o psicoanalisi perchè troppo spesso ciò che viene opposto alla libertà di esser se stessi è lo schema rigido della società o dell'educazione, che nel porre binari sembra limitare la nostra dionisiaca espressione. L'approccio contemporaneo appare quindi esser sistemato sui binari del soggetto contemporaneo, ossia quell'identità che pare scomparire tra gli schematismi - l'io penso - oppure tra i movimenti di massa della società.

Risulta invece inusuale, almeno per l'utilizzo comune, quell'interrogazione radicale, quasi sepolta tra la polvere dei testi medioevali, sul Chi dell'uomo. Plotino partiva proprio da lì e mi sento vicino anch'io a questo tipo di approccio. In realtà, circa un anno fa, avevo già avuto occasione di introdurre il tema in maniera abbastanza esile ma diretta con il post Ma tu ti conosci? e dal quale non mi sono mosso poi tanto: continuo ad abitare il bivio tra le due celebri ipotesi che la tradizione occidentale ha codificato e che vi presento affinchè possano esser foriere di dubbi e nuove riflessioni:
1) L'idea di fondo è che esista una verità in sè stessi, quasi un "vero-io" plotiniano o un fondo eckhartiano dove l'uomo può attingere la verità "di sè" solo "chiudendo gli occhi", o per dirla con Plotino guardando con gli occhi interiori. Questa è stata la via seguita da tutta la mistica occidentale (mistica derivva dal verbo greco myein che significa appunto chiudere, socchiudere gli occhi e la bocca e quindi anche tacere).

2) Aristotele nell'Etica Nicomachea si impegna a sottolineare come ogni conoscenza e quindi anche quella di sè, è sempre veicolata da un soggetto che conosce e un oggetto da conoscere. Guardare in sè stessi per Aristotele non serve a molto perchè è sempre conoscenza di un oggetto e come tale può essere errata, non c'è nessun fondo o nessun luogo del vero io: è possibile conoscere sè stessi specchiandosi attraverso gli occhi di un amico, così come quando vogliamo vedere il nostro volto dobbiamo "specchiarci" in un oggetto, invece che tentare invano di "unirsi" con sè, come novelli Narciso.

Commenti

sgubonius ha detto…
Eheh tu sai che io sono sempre pronto con le mie terze alternative, che poi magari sono solo divergenze di parole eh!

Conoscere se stessi è inevitabilmente conoscere l'Altro che è "implicato" in noi stessi. Perfino le monadi di Leibniz, paradigmi del solipsismo, hanno in sè implicato tutto il mondo. Quale sia il soggetto o l'oggetto poco importa in fin dei conti.

Chiudere gli occhi sarà allora soprattutto affidarsi all'Altro e non chiudersi in se stessi. I nostri organi sono tutti strumenti di controllo sul mondo, risultato della diffidenza radicale del vivente che vuole perdurare a spese di altri organismi. Quando parliamo invece di "amor fati" in tutte le sue declinazioni (come meravigliosamente citavi nel post subito sopra a questo) lo facciamo proprio per sciogliere la vecchia distinzione soggetto-oggetto, tremendamente biologica e scientista. Fatico a concepire un mistico che non tenda al panteismo, all'immanenza del trascendente, alla complicatio e via dicendo, cioè all'eliminazione dell'io stagno da conoscere.
Non più conoscere se stessi (non c'è nessun se stessi) ma sempre e comunque conoscere l'Altro, non più come conquista teoretica ma come affermazione della Differenza con esso. Il sommo Altro è Dio, e affermarne la distanza (ovvero la trascendenza impossibile, cioè l'immanenza) passa proprio dal mettersi a tacere e accecarsi (cioè dall'eliminazione dell'io metafisico) per "lasciar essere" l'Altro. Il vero-io mi pare non possa che essere un "noi", sostanza spinoziana impersonale.
Unknown ha detto…
Bravo Sgug, concordo, ma questa è l'esplicazione del punto 1. :)
sgubonius ha detto…
Non del tutto!!
Bisogna essere pignoli, o meglio amo esserlo. Perfino Schopenhauer parla in favore di un certo ascetismo e di una mistica che arrivi a chiudere gli occhi della volontà, ma non è questo il risultato cercato (sempre nichilistico e remissivo). Il problema è sempre il dualismo: l'interiorità ed esteriorità, l'idea e la copia, la volontà e la rappresentazione.
L'Uno va benissimo, ma bisogna sforzarsi di conservarne l'unità anche sul piano ontologico senza svalutazioni, altrimenti poi davvero quel myein diventa una reazione di sconforto allo schifo delle ipostasi inferiori e non una piena affermazione della distanza che separa dall'uno. La verità non sarà di sè o del vero-io, sarà semmai una "verità dell'essere" in senso Heideggeriano (cioè sempre in ricerca). Essere se stessi sarà sciogliersi nella sostanza.

C'è quindi mi pare qualcosa del punto 2, d'altronde è un po' la stessa questione dell'altra disquisizione su Aristotele e Schopenhauer. Si tratta di coniugare gli aspetti "ideali" di una corrente con la prassi del molteplice (dell'Altro) che ci insegna l'altra, e di epurare d'altro canto dalla prima il nocciolo "nichilista" dell'ascesi dal mondo e dalla seconda i comparti stagni del soggetto/oggetto. Per questo prima ti citavo Spinoza come esempio, oppure ci sarebbe il solito Nietzsche. L'Amor dei intellectualis o l'Amor fati che ci propinano questi due sono degli equilibri molto delicati fra i punti 1 e 2 se vuoi. Una accettazione "ad occhi chiusi" dell'intero pacchetto del mondo, che proprio per non lasciar fuori nessuna parte di questo mondo (come risulta inevitabile coi dualismi, dove una delle due componenti si svaluta) deve articolarsi in reti complesse (com-plicate) di relazioni fra elementi sul medesimo piano, relazioni differenziali nelle quali soltanto ha luogo una sintesi di qualsiasi genere. Da qui il problema dell'Altro (diciamo di Dio) e l'esigenza della sua immanentizzazione ed implicazione. Il mio scetticismo è quindi soprattutto riguardo alle ipostasi e alle emanazioni, ovvero riguardo ad ogni ritorno di trascendenza.

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