Fanny e Alexander

di Sgubonius

Guardando un film di Bergman si può provare e pensare di tutto, ma mai che è banale. Questo perché non è mai un’opinione a muovere il maestro svedese, ma sono sempre dei dubbi, che tormentano il suo spirito, a prendere forma. Così il risultato non può che essere sempre problematico, mai del tutto risolto, quindi sempre stimolante. Fin dal principio è soprattutto la questione epocale del nichilismo a dare un’impronta alle sue domande: la morte di Dio che trascina con sé nella tomba ogni permanenza, ogni salvezza, soprattutto dell’Io (con l’epigone in Persona). Tutta l’opera di Bergman è attraversata dall’ossessione di un “mondo di marionette” senza burattinaio, in cui i fili abbandonati s’intrecciano pericolosamente nella difficoltà di ogni rapporto interpersonale (è sempre l’Altro il problema, sia esso Dio o gli uomini). Ecco la necessità di essere registi, teatrali o cinematografici, la necessità di sbrogliare queste matasse trovando uno scopo, una fede, un amore, una memoria, un’opera a cui dedicarsi. Tutti questi temi si sovrappongono tanto nella mente quanto nella filmografia di Bergman, senza un attimo di tregua.

E’ soprattutto nel suo ultimo film, Fanny e Alexander, vero e proprio testamento del regista, che possiamo trovare una sintesi di questo mondo problematico. Ed è solo alla fine, in limine (alle soglie della vita…), che dallo spessore del problema stesso emerge una traccia di soluzione, uno spiraglio luminoso. Nell’arazzo meraviglioso della pellicola, spicca infatti la liberazione del bambino Alexander (Bergman stesso) dal patrigno, ovvero il ritorno all’origine, alla famiglia-teatro, attraverso la forza dell’immaginazione, della creazione. Ritroviamo qui simbolizzata tutta la poetica del nostro Ingmar: il (Dio) padre, non casualmente teatrante, che muore all’inizio, e il rigido e freddo pastore protestante che gli si sostituisce, separando il bambino dal mondo degli affetti; poi l’incontro con il magico, la potenza dell’immaginazione, e il salto di fede. Fede come fiducia nella potenza stessa dell’immaginare, del domandare, dello sperare, anche quando non c’è alcun segno del garante della risposta. Fede insomma nella creazione artistica, nella finzione più pura, nella marionetta (kleistiana) stessa; contro la maschera unica, “impressa a fuoco”, del pastore, le maschere infinite (sarebbe di dovere riprendere il riferimento iniziale a Nietzsche) del teatro/cinema. E così si conclude, poeticamente, l’ultimo film di Bergman:
« Tutto può accadere, tutto è possibile e verosimile. Il tempo e lo spazio non esistono. Su una base insignificante di realtà, l'immaginazione fila e tesse nuovi disegni »

Commenti

Grazie Sgubonius per il graditissimo contributo, che va a inserirsi perfettamente nella cittadella. Il cammino di Bergman sarebbe tutto da studiare, studiare filosoficamente, accostandoci così a quelle stesse domande che nei film ritornano sempre prepotentemente. Un po' come nei dialoghi di Platone, i film di Bergman conducono spesso a questioni aporetiche, il cui fine magari si vede ma non ci è dato conoscere. Ecco, allora, che Bergman ridiscende e risale attraverso un nuovo film, rileggendo quelle domende e ripropoonendo quei problemi, così intimamente legati con la radice umana, con una nuova veste e con nuove vite.
sgubonius ha detto…
Grazie a te!
Sì, in effetti nella sua lunga filmografia ha spesso frequentato anche dei veri e propri dialoghi aporetici (soprattutto quelli del periodo di mezzo, degli anni 60, ma in qualche modo anche i primi) per poi riprenderli. Mi pare che Fanny e Alexander possa porsi come degno sunto e conclusione del percorso e dell'aporia del silenzio di Dio che è quella centrale che articola i problemi.
Angelo ha detto…
Film stupendo da vedere specialmente in questi giorni natalizi.