Solitudini

Alle prime luci della Cittadella, quando il cammino era ancora impreciso e vago, avevo assunto l'abitudine di riflettere e commentare gli avvenimenti quotidiani che più mi impressionavano, cercando non di estrapolarne una patetica quanto raffinata morale ma cercando di risalire verso le cause e le circostanze storico-filosofiche delle azioni umane. Questa sera vorrei riprendere, a malincuore, questo esercizio, invitandovi a scorrere la breve lettera di denuncia pubblicata stamane su Repubblica e firmata da Shulim Vogelmann (qui). Le reazioni a questo fatto di cronaca sono state tante e vorrei timidamente aggiungermi al coro di tutti coloro che hanno ritenuto scandaloso e abominevole il comportamento dei funzionari delle Ferrovie dello Stato. Non spendo altre parole sul fatto sia perchè credo che sia superfluo aggiungere altre righe impietose sull'accaduto, sia perchè, come premettevo, nella cittadella ho cercato di evitare interventi con la morale del bravo cortigiano.

Un elemento interessante - ma altrettanto impietoso - credo che lo si possa estrapolare dalle ultime righe, quando l'autore della lettera ci restituisce la totale indifferenza degli altri passeggeri a quanto stava avvenendo dinanzi a loro. I passeggeri, scrive Vogelmann, «sono rimasti tutti fermi, in silenzio, a osservare». Inutile sottolineare come non vi possa esser distinzione sociale, nè politica nè tantomeno religiosa alla categoria del "passeggero". Erano, tuttavia, tutti accomunati dalla stessa apatia, tutti anestetizzati dinanzi al dolore e alla brutalità. Questo è il triste spaccato sociale della nostra Italia, di cittadini che hanno dimenticato la fame e la sofferenza, di benpensanti tutti attaccati al loro posto, alla loro "legalità" e ai loro diritti di viaggiatori, tutti raggomitolati nelle loro giacche sui nuovi treni comodi e superveloci. Nemmeno i silenzi omertosi erano (sono) così tremendi.

Cambiamo scenario: 1956, dopoguerra. Stesso treno, Bari-Roma, o affine, che scende verso la Terra di Lavoro. Vi invito a rileggervi, con calma, la poesia di P.P. Pasolini, Terra di Lavoro, in Le ceneri di Gramsci. Non c'è, dietro, alcun intento strappalacrime ma solo la proposta di una lettura che ci possa far confrontare queste due solitudini. La solitudine di quei "neri contadini", che "non sanno nulla", di quella madre che chiede solo la vita, contro questa indifferenza becera e borghese di un'Italia nichilista, dedita al culto dell'individualità e del denaro. E' curioso come lo stesso ambiente del treno possa fotografare le due Italie così lontane, sulle quali non voglio dilungarmi ma affidare il giudizio alla coscienza di ognuno.

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