Una questione di "tolleranza religiosa"

Ieri notavo un breve commento apparso su "Il Foglio" (qui) nel quale si metteva in discussione "la provocazione lanciata da tre consiglieri regionali liguri del centrodestra" di mettere a referendum la concessione o meno di costruire un "edificio destinato a ospitare riti religiosi". Premetto che l'occasione di tale tematica giunge soprattutto dalla discussione del post Ai figli il cognome della madre. Perchè? e in questa occasione pretendo di allacciarmi alla politica nel senso originario, prescindendo dal calderone attuale. Ci tenevo a precisarlo per evitare che qualcuno possa leggere, tra le righe, alcuni ipotetici riferimenti a precedenti parapiglia avvenuti in questa sede (questo in particolare). Entrando nel merito dell'articolo, inizierei con il puntualizzare un elemento decisivo: la critica che mi sento di muovere non è tanto alle conclusioni, con le quali sostanzialmente sarei persino in accordo, bensì al percorso e ai motivi che le sorreggono. Partiamo pertanto dalle conclusioni:
La democrazia dovrebbe fermarsi dove c'è il dialogo tra l'uomo e Dio. Tutto quello che accade entro quella sfera, riguarda noi (individualmente) e Lui, non la collettività. I vostri diritti finiscono dove iniziano i miei; e il vostro diritto alla politica finisce dove inizia il mio diritto a Dio.
In questo secolo l'idea di tolleranza religiosa ha oramai preso il sopravvento in occidente e difatti la chiusa dell'articolo segue proprio quel profilo, nato dall'incontro delle tendenze ireniche del 1500 con la vocazione politica (non a caso), da Locke a Lessing e per tutto l’illuminismo. Dal mio punto di vista quest'idea non solo è riduttiva nei confronti della criticità delle questioni approcciate dalla religione, ma soggiace ad una tremenda tendenza conservatrice e ad un "amor sui" lontano da ogni spirito veramente religioso. Nel suo tentativo di salvaguardare le particolarità delle differenti religioni, in realtà la "tolleranza" si arrocca sulla tradizione e sulla legittimità acritica del passato, evitando di porre in questione le usanze e i "dogmi culturali", perchè porsi in questione significa innanzitutto esser disposti a rinunciare al proprio passato, da analizzare certo in maniera saggia e non da violentare con il martello. Parimenti questo forte tentativo di aggrapparsi alla mondanità di una religione genera indifferenza verso la spiritualità perchè quella religione lì è divenuta mera "cultura", nel suo senso etimologico di "recinto", "contenitore", ovvero è divenuta un portato, un oggetto, un ente da equiparare agli altri, ente tra gli enti, mai aperto all'ulteriorità della vita. L'altra faccia della medaglia è nota, poichè nell'indebolire (un termine caro al nostro Gianni Vattimo) la pretesa veritativa della religione, diminuisce la possibilità di fondamentalismi e la carica di violenza connessa, certo un risultato lodevole. Tuttavia questa non è più religione ma "cultura". Ricapitolando, sostengo qui che la tolleranza religiosa è fondata su un concetto di "tradizione" di marca conservatrice e stravolge l'idea di religione, creando il canone per buona parte dell'illuminismo, così da risultare inefficace a rispondere ai problemi dell’uomo e determinando in buona parte l'allontanamento contemporaneo dalla spiritualità. Buon gioco ha la politica, che, come anticipato, ha contribuito in massa a creare le condizioni e l'ambiente di sviluppo della "tolleranza religiosa". Che la soluzione all'enigma non sia nell'uscire da questo approccio? Che la chiave per l'armonia tra i popoli, per la "Pace della fede", non arrivi dalla politica e dalla separazione moderna Stato-Chiesa, ma dalla ragione stessa? Che la chiave non sia proprio il recupero (ermeneutico) della metafisica antica?

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